La grammatica della carità
Da: p. DANIELE, sx
Ho terminato il corso di lingua, qui a Londra. Anche se la conoscenza della lingua inglese lascia ancora a desiderare, sento di dover imparare specialmente la grammatica del linguaggio della carità e di poterlo coniugare con un verbo nel tempo presente, perché così posso avvertirne l’eco infinita.
Negli ultimi giorni sono stato con gli homeless - i senza fissa dimora. In particolare, sabato sono stato con un giovane italiano malato di schizofrenia e anche tossico dipendente: senza dimora, senza nulla, senza vita che valga più di un insignificante sopravvivere; radici che sanno di abissi che non hanno mai visto il sole, se non per caso; un passato che schiaccia e che tormenta, ma con un sogno immenso…
La scorsa settimana ho ricevuto un dono insperato: ho iniziato un piccolo servizio in carcere. Lì incontro un giovane drogato, ribelle per tanti anni, penuto ladro per necessità di restare attaccato alla vita…
Ho visto e sentito cose che pensavo davvero potessero essere solo letteratura cinematografica. Ho visto tanti volti feriti. Uno in particolare, il cui viso, le mani, le braccia e forse tutto il corpo, erano feriti da tagli profondi o superficiali; alcuni rimarginati e altri ancora di color rosso acceso… Talvolta le ferite interiori sono così laceranti che anche il corpo deve avvertirne la stessa intensità. Paradossalmente, il male è l’unica cosa che li fa star bene.
E io ascolto, osservo, invoco nel silenzio la benedizione del Signore su queste vite, come a invocarne la risurrezione della speranza, la risurrezione degli sguardi. Li vedo nelle braccia del Padre, immensamente amati, desiderando che loro stessi si vedano in quello sguardo pieno d'amore, mai più vero di così.
(Londra, 24 novembre 2006)