Ripartire vuol dire far memoria di chi ci ha lasciato, raccogliendone le domande di senso. Ripartire vuol dire condividere i perché, i dubbi e i pianti di chi è rimasto. Ripartire vuol dire anche dire grazie a chi è a servizio della vita ogni giorno, e non da oggi, anche quando essa diventa fragile e vulnerabile.
Scrivo con il cuore gonfio. Vivo nella “Casa Africa”, a Vicomero, vicino a Parma. Ogni giovedì vado in Casa Madre, quasi un pellegrinaggio. Salgo al “Quarto Piano”, dove c’è la comunità degli ammalati. Partecipo alla celebrazione eucaristica e al pranzo. Il clima è sereno. Siamo fratelli, scendo nel grande refettorio e incontro gli altri confratelli. Poi... il coronavirus, come un temporale. Uno dopo l’altro sono caduti come le querce: diciotto! Ho davanti agli occhi i loro volti, il loro sorriso. Vite interamente “donate” in vari continenti. Mi è difficile scrivere su di loro... Tutto sembra irreale! Vari venivano dal Congo RD, abbiamo vissuto insieme. Cito alcuni nomi: p. Gerardo, che mi informava su quanto avveniva in Casa Madre; i fratelli Guglielmo, Lucio, Scintu; fr. Masseroni, che intonava i canti; p. Rizzi, non vedente, forse per una malaria; p. Camera, prima rettore dello Studentato Teologico, poi incaricato delle cause dei santi, i nostri martiri saveriani, ma non solo, la ragazza Benedetta Bianchi Porro ecc. “La nostra vocazione è aperta al dono della vita”, ha detto p. Filippo. E il nostro fondatore, Guido M. Conforti, santo, diceva ai missionari partenti per la Cina: “Il Crocifisso è il grande libro sul quale si sono formati i santi e sul quale dobbiamo formarci anche noi”.
Crediamo che anche il coronavirus, certo non senza timore e angoscia, vissuto con amore e abbandono, sia una forma di martirio. Crediamo nella presenza del Risorto e con lui il senso della morte è capovolto: non annulla la persona, ma la porta al compimento. Come il chicco di grano, caduto in terra, morendo si moltiplica. Sì, viviamo nella speranza, solo così fiorisce l’amore, la pace, la gioia!
