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Un mondiale di… periferia

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Siamo nel pieno dei mondiali di calcio… L’avventura è iniziata e il Brasile per un mese è sotto i riflettori del mondo. Telecamere, microfoni e satelliti descrivono nel dettaglio le gesta di calciatori più o meno noti. Non mancano servizi e pagine dedicati all’altro mondiale, quello delle favelas, dei bambini in infradito, della bellezza dei paesaggi naturali, delle proteste per i costi organizzativi, degli operai vittime sul lavoro per consegnare in tempo uno stadio all’altezza.

L’altro mondiale si gioca tutte le settimane anche da noi, in Italia, e non ha le copertine patinate di questi giorni. Sono storie che non fanno audience, perché nessuno le racconta, perché si svolgono nei campionati minori. E proprio da una delle periferie del nostro paese arriva un’avventura che desidero farvi conoscere. 

Mario, ex operaio e sindacalista in pensione, sensibile ai temi dell’immigrazione, è un grande appassionato di calcio. Lo segue fin da giovane, vedendo anche il figlio Alessandro raggiungere buoni livelli.

Nella sua parrocchia gravitano tanti cittadini extracomunitari che la domenica si ritrovano per “fare comunità”, arrivando anche dai paesi vicini.

Mario ha un’idea geniale: creare una squadra di calcio a 7 giocatori, composta da giovani stranieri. Basta un passaparola e il gioco è fatto. Mario è allenatore, presidente e garante… Iscrive la squadra al campionato CSI (Centro sportivo italiano) e l’avventura inizia.

Le prime difficoltà sono logistiche, perché alcuni componenti, conclusa la giornata di lavoro, per allenarsi devono prendere il pullman e percorrere diversi chilometri. Dopo gli allenamenti, Mario spesso invita a casa alcuni dei giocatori più “affamati” da affidare alla cucina della moglie Silvana. Gli etti di pasta e il pane inzuppato nel sugo non si contano!

Questa strana squadra africana, un po’ arruffata e indisciplinata, lentamente apprende i consigli e le direttive di Mario. Le sconfitte si trasformano in vittorie e la classifica a metà anno ha un aspetto soddisfacente. Meno l’accoglienza dei tifosi delle squadre ospitanti: “Sono arrivati i cioccolatini! Dove tenete le banane?”, sono solo alcuni degli apprezzamenti ricevuti. I ragazzi di Mario finiscono per rispondere alle offese e per perdere la giusta concentrazione.

Mario chiama il figlio Alessandro, gli chiede una mano. Insieme, cercano di far capire ai ragazzi che loro devono solo giocare, di essere “cattivi” dal punto di vista agonistico, di non ascoltare le provocazioni, anche perché, a causa di un italiano zoppicante, le loro rimostranze non sono capite. Ci avrebbero pensato Mario e Alessandro, che in qualche partita è perfino sceso in campo per aiutare i ragazzi africani. La classifica migliora, la prima posizione è vicina.

Il parroco però pretende che giochi solo chi partecipa alla Messa. Mario allora ricorre a tutte le sue doti sindacali per far capire al parroco che solo giocando sarebbe stato più facile avvicinare i giovani africani alla vita parrocchiale.

L’ultima partita, decisiva per il primo posto, va male. L’annata, però, nonostante le difficoltà, si conclude con tante soddisfazioni.

I giovani africani sono migliorati dal punto di vista tecnico, ma soprattutto hanno imparato a ignorare… gli ignoranti, a rispettare le consegne, gli orari e l’impegno.

E in cambio hanno ricevuto l’umanità e la generosità di Mario e della sua famiglia.​



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