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Il racconto di una passione, Congo e Amazzonia...

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Padre Angelo Pansa è un saveriano ber­gamasco di 77 anni. Da qualche tempo, fa parte della comunità saveriana di Lama, dopo essere rientrato dall'Amazzonia per un periodo di riposo. Si presenta a tutti i lettori, raccontando un po' della sua vita missionaria condotta sempre... in prima linea.

La mia passione missionaria ha origine in un incontro avvenuto nell'anno scolastico 1941-1942 a Berga­mo, alle scuole elementari. Padre Lorenzo Lini, un saveriano espulso dalla Cina, era venuto a parlarci della sua esperienza di missione, delle difficoltà, della persecuzione, ma anche della gioia nel vedere per­sone che all'annuncio del van­gelo diventavano cristiani.

Missione nei banchi di scuola

Alla fine di quell'ora, trascorsa ascoltando e facendo domande, p. Lini chiese chi di noi se la sarebbe sentita di fare lo stesso. In due abbiamo alzato subito la mano, io e Giuseppe Arnoldi, che poi è diventato saveriano ed è stato missionario in Indonesia. Padre Giuseppe ha già raggiunto la meta finale dell'esistenza terrena il 21 novembre 1991.

Dopo un colloquio tra p. Lini e i miei genitori, ho lasciato la famiglia per continuare gli studi nella scuola apostolica dei saveriani. Con il passare degli anni e degli studi, la "passione missionaria" si consoli­dò. Arrivarono così di seguito la professione religiosa nel 1948, poi l'ordi­nazione sacerdotale nel 1956 e la destinazione con il primo gruppo di saveriani in Congo nel 1958. Dopo nove anni, fui richiamato in Italia per essere "dirottato" nel 1967 verso la nuova missione in Amazzonia, da cui sono tornato lo scorso anno.

C'è stata una svolta

Ci sono stati momenti nella vita che ritengo molto importanti, perché hanno cambiato il mio modo di svolgere la "missione". Prima dell'in­dipendenza del Congo Belga, adottavo lo stile catechetico tradi­zionale che i padri bianchi ave­vano utilizzato in Africa: quattro anni di catecumenato molto intenso e il successivo inse­rimento nella comunità cristiana con il battesimo e gli altri sacra­menti.

Con il sopraggiungere del­le difficoltà, successive alla dichiarazione d'indipendenza del Congo (1960), noi missionari siamo rimasti vicini alle co­munità cristiane per cercare di far fronte alle ingiusti­zie e violenze nei confronti della popolazione congolese.

Condividendo le condizioni di vita della popolazione, ci siamo accorti che era questo il vero stile evangelico dell'annun­cio. Stavamo vivendo con la gente le parole di Gesù: "Sono venu­to perché tutti abbiano vita e una vita in pienezza".

Condivisione prima di tutto

Questo modo di vivere la "pas­sione missionaria" ho cercato di interpretarlo nella nuova esperienza in Amazzonia. Convivendo con la popo­lazione che incontravo, cristiani o non cristiani, indio o "senza terra", operai delle miniere, "schiavi dell'oro" o colo­ni, la mia pre­occupazione era quella di farmi carico dei loro problemi vi­tali, legati alla sopravvivenza, sia fisica che culturale, in modo da ga­rantire il loro diritto alla "vita in pienezza".

Nonostante l'urgenza e la gra­vità delle situazioni, ho sempre ritenuto un aspetto fondamentale il momento dell'annuncio espli­cito della persona di Gesù Cristo. A Lui ho cercato di ispirarmi, facendolo "rivivere", mostrando come Lui ha vissuto, annunciando i valori del Regno: verità, giu­stizia, fraternità, pace e soprat­tutto condivisione. Ed è proprio cercando di testimoniare in modo esistenziale questa condivisione che, specialmente con i gruppi indio con i quali ho vissuto più tempo, credo di essere riuscito a modificare l'opinione che essi avevano del cristiano: "l'uomo dalla lingua biforcuta, che non dice mai quello che pensa e non fa mai quello che dice".



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