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Granelli di pace in una macchina da guerra

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Abbiamo ancora negli occhi le strazianti immagini della popolazione afghana che si accalca all’aeroporto di Kabul, nella speranza di trovare un posto sugli aerei diretti verso i Paesi occidentali. Genitori che consegnano i loro bambini ai militari, affinché li portino in salvo prima dell’arrivo dei talebani.

p.4 Archivio Disarmo

Immagini che narrano la missione militare in Afghanistan come un fallimento. I vent’anni di occupazione militare hanno causato più di 150mila morti tra i civili afghani, in gran parte vittime degli “effetti collaterali” della guerra. Certo, durante l’occupazione militare le bambine e le ragazze potevano andare a scuola, le donne non erano costrette a portare il burka e anzi potevano insegnare, votare ed essere elette in parlamento. Il benessere in alcune zone era cresciuto ma, nel frattempo, crescevano anche la corruzione, gli attentati e perfino la produzione e il commercio illegale di oppio che i talebani avevano quasi debellato. Soprattutto non è stata mai ascoltata la società civile afghana e le organizzazioni non governative, anche italiane, che chiedevano di elaborare una visione condivisa con la popolazione, destinando le stesse risorse impiegate nell’operazione militare alla ricostruzione del Paese. “Portare la democrazia”, è stato lo slogan che è servito soprattutto a coprire gli interessi degli apparati militari.

Nel corso di questi anni, infatti, le principali aziende militari americane hanno visto decuplicare il valore delle loro azioni in borsa grazie al “fatturato sicuro”, garantito proprio dagli investimenti statali per l’acquisto di nuovi e sempre più sofisticati armamenti. Gli Stati Uniti hanno speso per la guerra in Afghanistan più di 2.300 miliardi di dollari, l’Italia almeno 8,5 miliardi di euro. Soldi spesi per pagare le agenzie di contractors (mercenari), per testare nuovi sistemi militari e anche per fornire armamenti alle forze armate afghane: tutto l’arsenale bellico adesso è finito nelle mani dei talebani, dei signori della guerra e anche dell’Isis, che si è subito dato da fare per saccheggiare i depositi.

La macchina da guerra è costosa e allora bisogna accrescere gli introiti. In Italia, quindi, ecco il sostegno alla vendita di armamenti per promuovere la “proiezione nei mercati esteri” dell’industria militare nazionale, capitanata dai due colossi a controllo statale: Leonardo e Fincantieri. A crescere sono state, soprattutto, le vendite di armamenti ai Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (oltre 18 miliardi di euro in cinque anni). Tra i principali acquirenti dei sistemi militari made in Italy figurano Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e anche l’Egitto del generale Al Sisi, che ben conosciamo per le vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki, ma anche per la violenta repressione degli attivisti per i diritti umani detenuti nelle prigioni governative.

Uno scenario inquietante che ci fa domandare cosa sia successo a quel principio sancito nell’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Nel gennaio 2021, il governo ha deciso, a seguito di una mozione parlamentare, di revocare le licenze per le forniture di bombe all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. È stata così definitivamente bloccata l’esportazione di quasi 20mila ordigni che i due Paesi arabi avrebbero impiegato in Yemen: bombardamenti indiscriminati che hanno colpito zone abitate da civili, ospedali e scuole…

È stato un fatto storico! Tranne nei rari casi di embargo internazionale, l’Italia finora non aveva mai revocato licenze per esportazioni di sistemi militari. Questi granelli di pace sono serviti ad inceppare qualche meccanismo della macchina da guerra e, soprattutto, a non renderci complici delle stragi di civili che accompagnano tutte le guerre. “Il potere non tollera la verità sulla guerra, l’unica verità sulla guerra sono le vittime”, diceva Gino Strada.

 

Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD) è un'associazione di promozione sociale con sede a Roma. Fondato nel 1982, l'Istituto promuove la ricerca scientifica sui temi del disarmo, sicurezza, cooperazione internazionale e risoluzione nonviolenta dei conflitti. Sito: www.archiviodisarmo.it



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