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Chemba, 1 dicembre 2013.

1. Cominciare da Chemba.

Comincio a scrivere queste parole in un dopocena torrido di principio d’estate da savana africana, con le pale del ventilatore sparate in faccia per tentare di sopravvivere, con un vento secco e insistente che va in cerca di tutto ciò che è immobile per dargli movimento, dopo avere contemplato una palla gialla appesa alla notte, come fosse la prima volta nella vita che mi accorgo della luna. Comincio a scrivere queste parole a Chemba, riva destra del grande fiume Zambesi. Ci sono arrivato due mesi fa da Dondo, dopo cinquecento chilometri di strada e dopo dieci ore di viaggio. Quel pomeriggio stesso, all’ora del tramonto, vado in riva al fiume. E, da uomo cresciuto sulla riva di un fiume, prendo atto di avere avuto nostalgia della prossimità di un fiume. C’è un cartello con la scritta enigmatica “Mphole na ng’ona”. Ma sotto, l’immagine inequivocabile di un coccodrillo avverte anche chi non conosce il Chisena che lì è pieno di coccodrilli. Nonostante sia villaggio di capanne, Chemba è sede di distretto, perché anche in mezzo alla savana, dal punto di vista amministrativo, un distretto dovrà pure esistere. Chemba è il tramonto dietro al bao-bab, circonferenza rossa-fuoco tirata in basso dalla calamita della notte. Chemba è terra rialzata appoggiata al fianco della corrente: al di là del fiume, oltre i monti, a trenta chilometri, è Malawi. Negli anni della guerra civile migliaia di umani hanno attraversato – profughi - queste rive. Chemba è suolo secco e sabbioso, eccetto poche centinaia di metri attigui al fiume. Chemba è la gente incollata alla propria terra impietosa, pronta a perdonarla anche quando non produce nulla, incapace di maledirla anche quando si passa la fame. E a Chemba, nelle annate di grande siccità, fino all’altro ieri, di fame si moriva. Chemba è un mistero della natura, con l’acqua dei pozzi salata, nonostante sia sulla riva di un fiume e a trecento chilometri dall’oceano.

2. Cominciare ad adattarsi.

Dopo due mesi il corpo comincia ad adattarsi. Comincia ad adattarsi alla malaria, che è proprio una gran botta. La prima arriva una domenica mattina, con padre Dario che è in una comunità e io che sono rimasto in casa da solo. La gente ha tutto il diritto di battere alla porta perché è lì che aspetta per l’Eucaristia: mentre io sono sepolto nel letto, con la testa che sembra Dresda sotto i bombardamenti anglo-americani e neanche riesco a sollevare un dito. Il corpo comincia ad adattarsi a bere l’acqua piovana che raccogliamo in una grande cisterna durante la stagione delle piogge, per ovviare all’acqua salata del sottosuolo. Comincia ad adattarsi al cibo, che è quello della gente – e solo quello della gente, essendo il supermercato più vicino a quattrocentosettanta chilometri - : polenta di miglio, fagioli e foglie di fagioli, mandioca e foglie di mandioca, patate e foglie di patate. Pesce, poco, forse per causa dei coccodrilli. E invece capre, capre e ancora capre. Perché a Chemba le capre sono più degli umani. A Chemba le capre sono ovunque. Le devi mandare via dal campo da calcio prima di cominciare la partita, dalla scuola prima di cominciare le lezioni, dalla piazza prima di cominciare il comizio. Fino ad ora, il massimo è la capra caricata e legata tra il manubrio e la canna della bicicletta.

3. Cominciare a parlare.

Comincio a parlare una lingua. Perché una cosa è studiare una lingua, mentre un’altra è cominciare a parlarla. Puoi avere le nozioni grammaticali archiviate graniticamente nel cervello come le cinque declinazioni del latino, ma da lì, riuscire a pronunciare una frase di senso compiuto, quando vai al mercato a comprare i pomodori e i fagioli, ne passa. Me ne vado in giro con una agendina nella tasca dei pantaloni dove annoto tutte le parole nuove. Sulla prima pagina ho scritto: «Ine ndine munthu wakusaka mafala», «sono una persona che cerca parole». Se la prima pagina ha un taglio filosofico – antropologico di portata notevole, la seconda scivola rapidamente nella dimensione quotidiana e prosaica della vita: «Ndhaponda matubzwi a ng’ombe», «ho pestato una cacca di vacca», scritta esattamente il pomeriggio stesso del mio arrivo a Chemba, al ritorno dal tramonto contemplato in riva al fiume. «Muna anthu angasi?». «Anthu atatu na nzungu mbozi». «Nzungu si munthu tayu?». «Ndimo, ndi munthu. Mbwenye ine ndinabverana na iye tani?!». Traduzione italiana: «Quante persone ci  sono?». «Tre persone e un bianco». «Ma il bianco non è una persona?». «Sì sarà pure una persona. Ma io come faccio ad intendermi con lui?!». Aneddoto Sena che vale più di qualsiasi trattato di antropologia culturale. Non so se sia più grande la mia felicità di fronte ad alcune parole scambiate con i vecchi che parlano solo Chisena, oppure la felicità di questi stessi vecchi che, cresciuti nell’epoca del duro colonialismo portoghese, per decenni si sono visti negati il diritto a vivere liberamente sulla propria terra, il diritto a custodire e trasmettere le proprie tradizioni, il diritto di parlare la lingua dei propri antenati e che, ora, invece, si riconoscono pienamente anthu - persone - proprio a partire dalla propria cultura, lingua, tradizione, terra. Forse la felicità è felicità e basta, non si misura, non risponde a regole di quantificazione e comparazione. La felicità è tale proprio perché è condivisione, è esplosione collettiva, abbraccia tutti e non esclude nessuno. Altrimenti non sarebbe felicità. Felicità, come la felicità della prima Eucaristia celebrata in Chisena. Che è felicità di tutti nella danza, nel canto, nel silenzio, nella preghiera, nel battito delle mani sul tamburo, nel sorriso sulla bocca e negli occhi, nel grido potente del nthungulo. Poco alla volta anche io, da bianco, comincio a diventare persona.

4. Cominciare a cambiare.

Nelle ultime settimane, trasmessa da radio e da cellulari, sta girando in tutto il Mozambico una canzoncina dal titolo “ O passarinho está a comer o arroz”, “Il passero sta mangiando il riso”. Il testo, in portoghese, dice pressappoco così: «Il passero sta mangiando il riso: sta mangiando il riso nella campagna, sta mangiando il riso nel cortile, sta mangiando il riso nel granaio. Mesi e mesi a lavorare, a zappare sotto il sole e sotto l’acqua. Il passero non conosce la fatica. Maledetto passero, arriva e porta via». Alla fine di un concerto, il cantautore è stato arrestato e si è fatto cinque giorni di carcere. Il 20 novembre ci sono state le elezioni comunali e anche una canzoncina può fare paura. Non serve un’immaginazione acuta per identificare il passero con la Frelimo, il partito corrotto al potere, e con il suo presidente - nonché presidente del Mozambico - Armando Emilio Guebuza. E se una canzoncina comincia a fare tremare, questo la dice lunga sulla situazione di tensione che si sta vivendo nel paese. Al potere dal 1975, anno dell’indipendenza dal Portogallo, la Frelimo ha “occupato” la società, tanto che per ottenere un qualsiasi posto di lavoro, sia pubblico che privato, è imprescindibile la tessera del partito. La Frelimo ha “occupato” lo Stato: si serve delle istituzioni dello Stato, (il parlamento, l’esercito, la magistratura, i funzionari pubblici...) come se fossero alle sue dipendenze. Una sorte di partitizzazione dello Stato, con il partito che è al di sopra dello Stato. Ha “occupato” l’economia: gestisce e controlla in maniera capillare lo sfruttamento e l’esproprio delle immerse risorse naturali del paese, che si spartisce in connivenza con il capitale straniero. Da partito di matrice socialista che era, si è riciclato in alunno modello del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. La Renamo, dopo sedici anni di guerra civile e dopo venti anni di opposizione, si è stancata di rimanere a bocca asciutta e a tasche vuote. Così da un anno è tornata alla lotta armata. Gli scontri sono proprio nella nostra regione di Sofala e circoscritti a tre aree: Muxungue, Gorongosa e Maringue, che si trova a 130 km da Chemba. Non passa settimana che non ci siano scontri e morti.

Molte aspettative sono rivolte nei confronti dell’MDM (Movimento Democratico del Mozambico), fondato nel 2008 da Daviz Simango, attuale sindaco di Beira (capitale della regione di Sofala) e figlio di Uria Simango, pastore luterano e vicepresidente della Frelimo ai suoi albori, fatto uccidere dalla Frelimo stessa all’inizio degli anni ’80. L’MDM ha una visione chiara sui temi della giustizia sociale, della ripartizione equa delle ricchezze, della lotta alla corruzione. L’MDM è il vincitore morale delle elezioni del 20 novembre: nonostante la Frelimo abbia vinto nella maggior parte dei Municipi, ricorrendo in maniera sistematica a brogli e intimidazioni dettagliatamente documentati, l’MDM ha confermato il suo governo nei Municipi che già amministrava ed è avanzato sensibilmente in tutti i 53 Municipi del paese. Un segno di cambiamento forte che indica il cammino verso le elezioni presidenziali del 15 ottobre del prossimo anno.

5. Cominciare dal sangue dei poveri.

Nel villaggio di poche capanne che ha per nome Tito, i madereiros -  i trafficanti di legname pregiato – cinesi sono arrivati cinque anni fa. Hanno mostrato una licenza rilasciata dal Dipartimento Regionale dell’Agricultura, hanno regalato una moto allo nyakwawa – il capo villaggio - e hanno cominciato a tagliare: mphingwe (ebano), chanfuta, panga-panga, nsasa. Un giorno muore un vecchio della comunità e gli uomini del villaggio, come hanno fatto da sempre i loro antenati, si dirigono a tagliare un albero per costruire la bara. I madereiros negano: serve un’autorizzazione. Passano gli anni. Sono decine e decine i tir carichi di legname pregiato che ogni giorno lasciano il distretto di Chemba diretti al porto di Beira con destinazione principale la Cina. Quello che qualcuno si azzarda a chiamare progresso non ha fatto altro che peggiorare le condizioni di vita del piccolo villaggio di Tito. La gente di Tito, dopo mesi di zappa e di sudore, sta lì aspettando che cada una goccia dal cielo per fare crescere il miglio e il sorgo appena seminati, mentre i tir carichi dei loro alberi - che loro e i loro antenati hanno visto crescere e che qualcun altro sta tagliando arricchendosi copiosamente - vanno ad imbellettare i salotti aristocratici di chi vive dall’altra parte del pianeta. Tito è una delle settanta comunità che compongono la nostra parrocchia di Chemba. Mi fermo un lunedì mattina mentre sto andando a Candiero a portare alcuni sacchi di cemento per costruire la nuova chiesetta che sostituirà la capanna di materiale locale, ormai piccola e malandata. Parlo con alcuni giovani che hanno appena terminato l’anno scolastico. La settimana precedente hanno sepolto Salvador. Salvador aveva 23 anni, era il primo figlio di una madre rimasta vedova ed era il responsabile dei giovani della comunità. Da diciotto giorni lavorava con i madereiros cinesi. Il diciottesimo giorno, un grande albero gli è caduto addosso ed è morto sul colpo. Alla madre hanno portato a casa il figlio morto e le hanno promesso 10.000 meticais, equivalenti al salario di tre mesi di lavoro. Il sangue di Salvador grida giustizia al Cielo. E assieme al suo, grida giustizia al Cielo il sangue versato da tutti i Salvador che muoiono in incognito ogni giorno, sfruttati e calpestati. All’insaputa dei giornali, all’insaputa dei sindacati, all’insaputa dei politici corrotti che svendono sottobanco la terra e le ricchezze del proprio popolo, all’insaputa di chi utilizzerà quel legno sporco di sangue per dormirci sopra o per custodire i suoi abiti da festa. Sangue versato all’insaputa del mondo, sangue versato in un buco sperduto ai confini del mondo. Salvador per il mondo era nessuno ed è morto come nessuno. Salvador portava il nome di Dio. Salvador era uno dei volti di Dio. Abbiamo ucciso Dio.

Conclusione. Cominciare a nascere.

Dio della vita, ogni giorno sei ucciso sulla croce del sangue versato dai poveri, sulla croce dell’ingiustizia, sulla croce della violenza, sulla croce dell’egoismo, sulla croce dell’indifferenza.

Il tempo di Avvento è tempo di cominciamenti. Ci ricorda che Tu, Dio della vita, ogni giorno non ti stanchi di nascere. Che ogni giorno ricominci a nascere. Che proprio lì ai piedi della croce, dove quotidianamente sei ucciso, comincia la risurrezione.

Dio della vita, prendi per mano questi tuoi volti scavati, calpestati, rassegnati, impoveriti, crocefissi.

Il tuo ricominciare a nascere, sia il nostro cominciare. Cominciare ad aprire gli occhi, cominciare ad alzarci, cominciare a camminare, cominciare a prendere la parola, cominciare a lottare. Il tuo ricominciare a nascere, sia il nostro ricominciare a nascere.

Amen.

  • ANDREA FACCHETTI.


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