Skip to main content
Condividi su

Dondo, 29 settembre 2013

Fine di un inverno tropicale e inizio graduale dell’estate. Un anno di Africa e un anno e poco più da prete. Ultimi giorni a Dondo e prossimo a partire per Chemba. Tempo di passaggi, tempo di punti e a capo.

Punto e a capo 1. Fine di un inverno tropicale.

L’inverno tropicale è mite e benevolo. Di notte basta una coperta di lana, mentre di giorno torna utile la gloriosa camicia di flanella a scacchi rossi e neri, fedele compagna di tante battaglie contro  il generale inverno europeo.

L’inverno tropicale ha il potere di rendere indulgenti anche le zanzare: diminuiscono sensibilmente in numero, mentre le poche che sopravvivono si fanno intorpidite e pigre. Ma il freddo, come il vino fatto in casa e come un figlio a mamma sua, è un fatto piuttosto relativo quanto ad attribuzione di giudizio. Così un mattino un po’ più rigido del solito pai Batista, valente segretario parrocchiale, si presenta puntuale alle 7.30 per ricevere le chiavi della chiesa con un cappello di lana color rosa e la scritta sgargiante “Barbie” in bellavista sulla fronte. Prendendo atto che pai Batista ignori che Barbie sia la bambola più conosciuta dall’altra parte del pianeta, nonché il primo oggetto del desiderio delle fanciulle globalizzate della mia generazione, trattenendo a fatica il sorriso, gli chiedo curioso: «Buon giorno pai Batista! Dove è che ha trovato quel bel cappello?». Risponde orgoglioso pai Batista: «Nas calamidades!».

Calamidades, ovvero calamità. Calamidades sono gli abiti usati di seconda mano che arrivano dal nord del pianeta, così chiamati perché la circolazione massiccia cominciò alla fine degli anni ’80, in pieno tempo di calamità, con  guerra civile e carestie - dovute prima alla siccità e poi alle inondazioni - che devastavano il paese. Per metonimia, calamidades, appunto. Poi, finita la guerra, le calamidades hanno cominciato ad essere commercializzate e oggi costituiscono la fonte di sopravvivenza per una vasto numero di lavoratori del mercato informale.

Camminando per strada, ci accorge che va alla grande il giaccone imbottito in piumino. A venticinque gradi con il sole abbagliante di mezzogiorno: straniamento da inverno tropicale. Si trova anche la maglietta dell’Inter degli anni ’90 quando l’allenatore si chiamava Orrico e quando quasi si rischiava la serie B; quella del Manchester United con il numero 7 di Eric Cantonà; giacche e cravatte per tutti i gusti. E poi pigiami, pigiami e pigiami ancora: pigiami con gli orsetti, pigiami con i fiorellini, pigiami con i puffi. Tutti usati come abito ordinario per il giorno, in una realtà dove il pigiama, inteso come abito per il riposo notturno, non esiste neppure come concetto. Ciò che si getta da una parte del pianeta, finisce per vestire l’altra parte. Così va il mondo. Finisce un inverno, comincia un’estate. Punto e a capo.

Punto e a capo 2. La ricchezza produce più povertà.

A febbraio ho cominciato a collaborare con l’Università Cattolica del Mozambico, nella sua sede di Beira, seconda città del paese, a 35 chilometri da Dondo. Mi aveva invitato Manuel, coetaneo portoghese, gesuita molto in gamba che lì insegna diritto nel corso di Scienze Politiche. Si chiacchiera una buona ora e pare di conoscersi da lungo tempo. Basta per partorire l’idea di un gruppo di ricerca sullo sfruttamento delle risorse naturali in Mozambico. Partiamo in tre a raccogliere materiale e ci si incontra un mattino a settimana. A giugno elaboriamo un progetto che coinvolge un piccolo gruppo di studenti del primo e secondo anno di Scienze Politiche con l’obiettivo, tra gli altri, di proporre una giornata di studio agli iscritti al corso di laurea.

Ci sono Álvaro, Ruben, Lourdes, Ligia, Lélio, Priscilla: vent’anni di vita - è la prima generazione che non ha conosciuto la guerra - e negli occhi il desiderio di costruire un paese migliore. Nel nostro lavoro ci lasciamo orientare da alcune contraddizioni stridenti. Nonostante la crisi economica mondiale, il Mozambico può vantarsi di un prodotto interno lordo al 7,2%. Non passa settimana che il governo non autorizzi nuove concessioni a multinazionali straniere per lo sfruttamento delle immense risorse naturali: carbone in Moatize, in mano a brasiliani, australiani e britannici; gas naturale e petrolio nelle aree off-shore del Rovuma, in pieno oceano, in mano alla italiana Eni, alla CNPC (Compagnia di Stato Cinese), alla statunitense Andarko e alla norvegese Statoil. Si prevede che nei prossimi anni il Mozambico entri nella lista dei dieci maggiori produttori di carbone e dei venti maggiori produttori di gas naturale a livello globale. È legittimo supporre che questa crescita economica, cominciata ormai dieci anni fa, stia portando ad un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Tutt’altro. Secondo il rapporto ONU sullo sviluppo umano di quest’anno, il Mozambico è il terzo peggiore paese al mondo in quanto a Indice di Sviluppo Umano, indice statistico composto che bilancia prodotto interno loro pro capite, speranza di vita e tasso di alfabetizzazione. Ma il dato forse più eclatante è quello relativo alla povertà. Dal 2009 al 2012 la povertà è aumentata passando da un tasso del 54,7% ad un tasso del 60%, cioè 2,6 milioni di poveri in più, con la povertà che cresce molto più rapidamente della popolazione.

Per concludere: la grande parte della ricchezza prodotta sono risorse naturali non trasformate in loco, che finiscono all’estero, gonfiando le tasche e le pance delle grandi multinazionali e del capitale finanziario. Il poco che rimane in Mozambico - cioè il valore irrisorio delle tassazioni altrettanto irrisorie per causa delle sproporzionate esenzioni fiscali concesse per attirare capitale straniero - finisce per gonfiare le tasche e le pance della elite politico-economico corrotta che controlla il paese. Ciò significa progressiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e conseguente aumento della disuguaglianza sociale.

Siamo così al paradosso che la crescita economica crea più povertà. Punto e a capo.

Punto e a capo 3. La terra è di chi la lavora.

E i tremila ettari di Mandruze? Finita la raccolta del riso da parte della gente di Dondo, sarà che i cinesi vi han già messo mano? Riprendo il punto e a capo della lettera n°6, quando stavamo provando a costruire una rete tra le diverse chiese di Dondo con l’obiettivo di coinvolgere un numero maggiore di persone nella difesa del proprio diritto alla terra: tentativo embrionale di creare dal basso una società civile che non fosse la brutta copia della Frelimo, il partito al potere - e a sua volta, logorato dal potere - che ormai detiene dal lontano 1975, anno dell’indipendenza dal Portogallo. Nei mesi di luglio e agosto, assieme ai tre responsabili della Commissione parrocchiale di Giustizia e Pace, abbiamo due importanti riunioni con una ventina di pastori di altrettante chiese evangeliche: concordiamo unanimemente sulla necessità e sull’urgenza di lavorare assieme per fare prendere coscienza alla popolazione di Dondo del pericolo incombente che la propria terra sia ceduta ad una grande impresa cinese senza neppure la consultazione pubblica. In inglese si chiama land grabbing, letteralmente “accaparramento di terra”, fenomeno divenuto ordinario in tutto il continente africano in questi ultimi anni: grandi multinazionali, con l’appoggio delle elite locali corrotte, si appropriano di vasti appezzamenti delle terre più fertili, generalmente all’insaputa delle popolazioni autoctone che, da un giorno all’altro, si trovano espropriate del bene primario di sussistenza.

Assieme agli altri pastori, decidiamo una assemblea di formazione sulla Legge della Terra per sabato 31 di agosto, invitando di nuovo la Commissione diocesana di Giustizia e Pace di Beira, come già avevamo fatto a giugno. Riusciamo nell’intento di fissare l’incontro in una chiesa evangelica, di modo che non passi l’idea che è la chiesa cattolica a tessere le fila. Grazie al passaparola delle nonne della pastorale della carità, l’avviso arriva capillarmente in tutte le nostre comunità. In più, due giorni prima rilascio una intervista alla radio comunitaria, la cui frequenze giungono fino a Beira. Tutto è organizzato per il meglio. Alle 7 del mattino di sabato 31 agosto pai Vilankulo e pai White, responsabili della Commissione di Giustizia e Pace, mi telefonano dicendo di essere davanti alla chiesa dove avremmo dovuto tenere l’assemblea e dove, invece, è appena stato loro comunicato che la chiesa non è più disponibile. La sera prima il presidente del consiglio delle chiese evangeliche, uomo della Frelimo più che uomo di Dio, ha ricevuto l’ordine dai capi di partito di sabotare l’assemblea e ha così informato la gran parte degli altri pastori dicendo che l’incontro era annullato. Da un momento all’altro tutto sembra perduto. Che fare? Chiamo pai Bulha, animatore della nostra comunità di São João Batista, prossima alla chiesa evangelica che avrebbe dovuto accoglierci, dicendogli di correre ad aprire la cappella, mentre pai Vilankulo e pai White informano le persone sullo spostamento.

Alle 8.30 arrivo con i due rappresentanti delle Giustizia e Pace diocesana: padre Norberto, missionario francese che nonostante una vita in Africa non ha perso il suo inconfondibile accento d’Oltralpe e Rosa, mamma combattiva, carismatica arringatrice di folle ed esperta conoscitrice della Legge della Terra nei suoi minimi dettagli. Nonostante il sabotaggio dei pastori legati al partito, la gente accorre in massa e la cappella di São João Batista si riempie rapidamente: seduti sulle panche, per terra, dietro l’altare, in piedi all’esterno contiamo, tra le cinquecento e le seicento persone. Le nonne più anziane non ricordano di avere visto la chiesetta così gremita neanche per la festa del patrono delle annate migliori. Cominciamo ascoltando un versetto del libro del Levitico. Il Dio della vita parla all’uomo di ogni tempo, spazio e cultura dicendo: «La terra non potrà essere venduta per sempre, perché la terra mi appartiene e voi siete migranti e ospiti» (Lev. 25,23) . Preghiamo il Padre Nostro in cisena «Baba wathu…» e chiediamo al Dio della vita di continuare ad accompagnare il cammino di chi cerca e lotta per la giustizia. Poi lasciamo la parola a Rosa che per due ore spiega la Legge in cisena e portoghese, in modo che tutti possano comprendere: «La terra è proprietà dello Stato e non può essere venduta, alienata o confiscata (art. 3). Il processo di titolazione del diritto e sfruttamento della terra deve essere preceduto dalla consultazione delle comunità (art. 13)…».

Rosa racconta che chi per primo disattende la Legge è il governo stesso: le grandi multinazionali del land grabbing contattano direttamente il Ministero dell’Agricoltura e la terra è svenduta sottobanco. Le consultazioni pubbliche sono ridotte a farsa come, ad esempio, è avvenuto nel distretto di Chemba l’anno scorso, dove hanno regalato una moto ai capi villaggio, li hanno invitati ad un lauto pranzo, fatti ubriacare e firmare l’atto di esproprio di 10.000 ettari di terra dove vivevano centinaia di famiglie. In seguito, chi vuole prende liberamente la parola: si ascolta in silenzio e la conclusione di ogni intervento è accolta con il grido della gioia e il battito delle mani. La rabbia e la rassegnazione di un tempo sono canalizzate in qualcosa di progettuale e di propositivo. È il povero, l’oppresso, colui che fino ad un attimo prima era singolo individuo arrendevole, ridotto al silenzio dal potere e dalla paura che, ora, assieme al suo fratello, prende coscienza della sua dignità di persona e, al tempo stesso, di soggetto collettivo: è forza di popolo unito che lotta per rivendicare giustizia e diritto alla vita. Riunire quasi seicento persone può fare paura a chi detiene il potere, soprattutto se si è a due mesi e mezzo dalle elezioni. Così tre giorni dopo riceviamo un invito imprevisto dal Municipio: «Nell’ambito delle buone relazioni esistenti tra questo organo e la Chiesa Cattolica, convidamos o senhor padre André Fechetti e i responsabili della Commissione parrocchiale di Giustizia e Pace per una riunione che avrà luogo giovedì 5 settembre…».

Andiamo in quattro: White, Vilankulo, Bulha ed io. Ci troviamo di fronte sindaco, governatore del Distretto (in Italia sarebbe il presidente della Provincia), segretario provinciale del partito Frelimo, più una quarantina di altri quadri del partito. Dalle facce cupe si capisce subito che non tira una buona aria. Prende la parola il sindaco che, dopo i convenevoli, mi invita a spiegare le ragioni del nostro lavoro. Poi succede quello che cominciavamo a immaginare. Una decina di quadri del partito prendono la parola con toni violenti e aggressivi: siamo accusati di fare comizi e di fare politica, di parlare male del governo, di non rispettare la laicità dello stato. Seguono minacce e intimidazioni pesanti per tutti e quattro. A White è chiesto minacciosamente dove abita, a me dicono che l’Italia mi aspetta e, conclusione ovvia, tutti e quattro saremo portati in tribunale. Stiamo in silenzio per evitare il peggio. Poi, Vilankulo, che ha la tessera del partito, ha il coraggio di puntare il dito contro i suoi compagni dicendo che: «Qui ci sono molti che mentono per interessi di potere». Bulha dice che: «Chi sta a fare confusione non è la chiesa ma persone che accusano e raccontano menzogne senza neppure avere partecipato alle nostre assemblee». Riprende la parola il sindaco per dire che «è vero che i cinesi sono venuti, ma ora la popolazione di Dondo può stare tranquilla, perché Mandruze non sarà venduta». Parla anche un giurista in doppiopetto che afferma che «la legge è cosa seria e non è fatta per essere spiegata in cisena». Dopo due ore e mezzo, si alza il segretario del partito: «Allora signor padre, questa riunione è durata più del dovuto, la invitiamo a chiedere pubblicamente scusa al Municipio e al Distretto con una dichiarazione alla radio comunitaria».

Nelle due ore passate lì in silenzio avevo preparato l’intervento conclusivo. Alcune di quelle idee sono rientrate nel documento che abbiamo redatto come Commissione di Giustizia e Pace e che ieri abbiamo presentato alla comunità, mentre dopodomani sarà consegnato al Municipio, al Distretto e alla stampa. «Le centinaia di persone che hanno preso parte ai nostri incontri possono testimoniare, senza dubbio alcuno, che non c’è stata nessuna parola contro le autorità governative. Il lavoro da noi portato avanti è stato ed è per amore al popolo mozambicano, ai principi della Costituzione e delle Legge della Terra del nostro paese, alle idee di giustizia e uguaglianza sociale che devono cominciare a prendere forma a partire dalla nostra realtà. Per questo non incontriamo nessuna ragione plausibile per porgere scuse. Oltre a questo, deploriamo i toni violenti, le minacce e le intimidazioni subiti che, di una certa forma, feriscono i principi costituzionali di uno stato di diritto quale il Mozambico è. […]. Se nel mese di aprile gli imprenditori cinesi sono stati invitati a Dondo dal Dipartimento Regionale dell’Agricoltura per negoziare con il Municipio e il Distretto di la cessione di 3000 ettari di Mandruze e oggi ci troviamo di fronte ad un cambiamento tanto rapido e contrario da parte delle medesime autorità, significa che questo è il risultato della pressione da parte di un vasto movimento di opinione pubblica, del quale la Commissione di Giustizia e Pace è parte attiva che, al di là degli interessi particolari e delle appartenenze, esige, con molta chiarezza e trasparenza, che siano riconosciuti i diritti primari alla terra e alla vita». Il documento termina con la richiesta di dare continuità alla nuova decisione presa dal Municipio e dal Distretto attraverso una dichiarazione pubblica che Mandruze non sarà ceduta e attraverso l’impegno concreto a favorire il processo di attribuzione del titolo di uso della terra alle famiglie e ai singoli individui di Mandruze, così come la Legge prevede. Solo quando avranno nelle mani il proprio titolo che certifica il diritto di uso della terra, le migliaia di persone che hanno terra in Mandruze saranno tranquille e libere dalla paura di perdere la propria fonte di vita. La sensazione è di avere tolto il velo, a conti già fatti, ad un progetto di dimensioni notevoli nel quale convergono interessi economici sovrapposti pesanti. Giochi di potere decisi sulla pelle dei poveri. Giochi di potere fatti a tavolino tra il capitale di investimento cinese, la classe politica locale corrotta e il Ministero dell’Agricoltura, dato che le grandi multinazionali del land grabbing entrano direttamente in contatto con il Ministero, mentre i vari Dipartimenti Regionali dell’Agricoltura si limitano a ricevere ordini dall’alto. Come mi dice un tecnico del Dipartimento Regionale dell’Agricoltura di Beira: «senhor padre, Mandruze é muito conhecida em Maputo!». E se ora le elezioni amministrative di novembre tengono lontano il pericolo perché, allo stato attuale delle cose, sarebbe un suicidio politico per la Frelimo cedere Mandruze, in seguito si dovrà continuare a tenere gli occhi aperti.

Punto e a capo 4. Dettagli di punteggiatura.

Tutto questo procede dentro flusso immenso della vita, tra una Eucaristia sotto una tetto di paglia e la gioia di scambiare due parole con una nonna che parla solo cisena, tra un’incontro biblico e la visita ad un malato, tra una riunione con gli scout e due passi nella foresta a cercare un po’ di silenzio, tra una lezione di cisena con Fernando e un giro al mercato in bicicletta a comprare i pomodori e le banane. Generalmente si dice ad un missionario che il primo anno in una terra che ti accoglie è quello del vedere, dello stare sulla soglia per entrare in punta di piedi. Invece, mi trovo dentro il vortice della vita, risucchiato dalla sua potenza, di fronte alla quale sarebbe peccato di omissione rimanere indifferenti. E così prendo atto che i punti e capo sono solo un dettaglio di punteggiatura, perché la vita è fiume che corre e si porta dentro tutto.

Dio della vita, Dio dei vortici che risucchiano, Dio che unisci tutti i punti e a capo... continua a prendermi per mano.

Amen.

ANDREA FACCHETTI.



Logo saveriani
Sito in costruzione

Portale Unico dei Saveriani in Italia

Stiamo finalizando la nuova versione del portale

Saremmo online questa estate!

Ti aspettiamo...

Versione precedente del sito