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Osea, Missione come compassione

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Nella teologia e nella pietà cristiane, l’appellativo di Dio come Padre è centrale. Sorprende che ricorra con sconcertante sobrietà nell’AT, benché tale designazione di Dio non sia marginale in relazione al popolo d’Israele e assuma progressivamente un ruolo fondamentale. Abitualmente questa metafora è usata in riferimento alla missione di Dio nei confronti di Israele. Inoltre, per esprimere la consapevolezza del popolo di appartenere e di essere dipendente da questo Dio: la metafora veicola perciò una peculiare intimità che caratterizza la vita d’Israele con il Signore.

L’IMMAGINE DI DIO COME PADRE

In Dt 32,6 il ruolo di Dio come padre è presentato come fondamentale e decisivo per l’identità d’Israele nel mondo: “Non è lui tuo padre, tuo Signore? Egli ti ha creato e ti ha costituito”. I versetti successivi esprimono il valore che Israele ha agli occhi di Dio (vv. 7-9), ma pure la cura peculiare di Dio per il suo popolo (vv. 10-14) e si cita l’assistenza divina durante la peregrinazione nel deserto come prova della paternità di Dio.

L’immagine del padre è inoltre usata in forma peculiare nel racconto dell’Esodo, dove Israele è identificato con il primogenito del Signore, come chiarisce Mosè rivolgendosi al Faraone: “Così dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Es 4,22); è probabile che tale riferimento stia alla base dell’affermazione di Os 11,1: “Israele era ancora un ragazzo e io l’amai; dall’Egitto chiamai mio figlio”. Non è raro incontrare espressioni passionali nei profeti d’Israele e certamente tra questi risaltano alcune pagine di Osea, che attribuiscono a Dio una sorprendente vita sentimentale.

Il libro profetico inizia, infatti, paragonando Dio a un marito tradito che da principio sfoga la sua ira sulla moglie infedele (il popolo), ma che poi rinnova con lei il patto d’amore contratto nel deserto (cfr. cap. 1-3). La stessa intensità manifesta il passo contenuto in 11,1-9, che si compone di tre momenti distinti: nel primo (vv. 1-4) si parla dell’amore di YHWH per suo figlio Israele, espresso nei termini dell’amore paterno e materno; nel secondo (vv. 5-7) si annuncia un castigo, una sofferenza che colpirà Israele a motivo della propria infedeltà; infine (vv. 8-9), siamo introdotti nell’intimità stessa di Dio, che è dibattuta tra la giustizia e la misericordia, ma che con un sorprendente ragionamento (“capriola del cuore” la chiama qualche esegeta) opta definitivamente per la misericordia.

NON COME UN PADRONE CHE COMANDA

Dio ripercorre la vicenda che ha visto protagonista lui e il suo popolo: tutto inizia con una chiamata (v. 1), che risale all’Egitto.

Il riferimento dovrebbe essere all’esodo dall’Egitto, momento di particolare grazia per Israele, in cui ha sperimentato la potenza di Dio e la sua premurosa guida. Ma subito si contrappone la persistente ingratitudine del popolo (vv. 2-3). Il resoconto rappresenta un deciso atto d’accusa rivolto da Dio al suo popolo. Come in tanti altri testi, l’amore divino è unilaterale: è lui che sceglie, che opera e dunque ama. Il popolo invece ignora la premura del suo Dio: il discorso sembra addirittura affermare che non c’è stato neppure un attimo in cui Israele ha corrisposto a tale benevolenza divina. L’accusa concerne i culti rivolti ad altre divinità (i Baal, v. 2): invece di aderire alla chiamata di YHWH, Israele ha preferito la sollecitazione di altre voci, di altre chiamate, come suggerisce il testo ebraico: “(altri) li chiamavano e camminarono davanti a loro” (v. 2).

Anche in questa situazione però la premura divina non è venuta meno: insegnava a camminare, teneva per mano, si prendeva cura (v. 3), anche se il popolo non ha riconosciuto tale dedizione, proprio come la moglie del cap. 2, la quale “non capiva che ero io che le davo grano, vino e olio e le prodigavo l’argento e l’oro che hanno usato per Baal” (2,10).

L’immagine è ulteriormente ampliata nel v. 4: Dio li ha tratti a sé “con lacci umani, con vincoli d’amore”, non con autorità o violenza, ma con amore; non come un padrone che comanda, ma come un essere umano che ama; come un padre o una madre accosta il figlio alla guancia per baciarlo, come si avvicina a lui per nutrirlo, tale è stato per Israele il comportamento di Dio durante il cammino dell’esodo, ma anche nella terra promessa.

Su queste toccanti affermazioni si conclude il resoconto del passato; le storie d’amore finiscono presto se manca la condizione che ne garantisce il futuro: la fedeltà.

Dio ha rivelato a Israele la profondità del suo affetto per lui, ma ha trovato davanti a sé una nazione incapace di riconoscenza. E ora l’amore deluso chiede riparazione, ora l’affetto non ricambiato si trasforma in desiderio di giustizia (che pure a livello umano non poche volte assume il volto della vendetta). E il v. 5 annuncia un duplice esilio, in Egitto e in Assiria, che la retorica profetica sviluppa con grande efficacia. Il popolo che non ha voluto ritornare (convertirsi) a Dio, sarà costretto a ritornare in Egitto (v. 5: “Non ritornerà al paese d’Egitto, ma Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi”; lo stesso verbo nei due casi). Evidente anche la contrapposizione con il v. 1: colui che dall’Egitto è stato chiamato, ora ritornerà in Egitto, benché l’Egitto al tempo di Osea assuma il volto storico dell’Assiria, dato che sarà quella nazione a provocare la fine del regno d’Israele e a deportarne la popolazione, ma proprio in tale frangente forse molti ebrei cercarono rifugio in Egitto. Prima dell’esilio, però, tutto sarà distrutto; ma di questa rovina unico responsabile è Israele: “a causa dei loro progetti saranno divorati” (v. 6), “il mio popolo è impigliato nella sua apostasia” (v. 7).

La storia sembra dunque giunta al capolinea con questo tremendo atto d’accusa che scagiona Dio e inchioda il popolo alla sua responsabilità.

PATERNITÀ E MATERNITÀ APPASSIONATE

Ma il dramma non è affatto concluso. Il popolo amato e ribelle non ha di fronte un Moloc divoratore, ma un Padre appassionato: egli ha il cuore sconvolto, le viscere frementi (v. 8: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione”). Un linguaggio azzardato per Dio, ma che solo è in grado di esprimere il tormento che lo scuote vedendo la sorte del suo popolo. Egli non può riservare a Israele, il figlio amato, la sorte di Adma e Zeboìm, le città cadute con Sodoma e Gomorra (cfr. Dt 29,22), perciò attua una nuova decisione, fondata sulla sua natura: “io sono Dio, non un uomo” (v. 9; cfr. Nm 23,19).

Due forze antagoniste si contrappongono in Dio: la sua ira, che è la reazione al male commesso dagli umani, e la sua volontà di salvezza, espressa nei termini del cuore sconvolto e delle viscere frementi; questa lotta in Dio è qualcosa di radicato nella sua più profonda natura, come sottolineano le frasi conclusive: il Signore non può annientare Israele perché egli è Dio. “La vera distanza tra Dio e uomo non consiste, per Osea, in una sublimità inavvicinabile, bensì nella vittoria sulla sua giusta ira, nella sua volontà di preservare dalla catastrofe coloro che si sono macchiati di una colpa mortale” (J. Jeremias).

In questo Osea ravvisa la santità del suo Dio: se la tradizione giunta a Osea aveva collegato la santità di Dio al suo splendore numinoso di fronte al quale ogni essere risulta impuro (cfr. Is 6,1-5) e perciò non può sussistere (cfr. 1 Sam 6,20), qui Dio è santo in quanto è colui che risparmia la vita e continua ad amare chi gli è infedele. “Santo in mezzo a te” (v. 9) è un altro modo per esprimere l’elezione d’Israele: se Dio rifiuta di abbandonare definitivamente il suo popolo non è per un cedimento ai suoi peccati, ma per proclamare in tal modo che la sua relazione nella storia con Israele non finirà a causa dei suoi peccati e della sua ira.

La chiamata del figlio ha davanti a sé un futuro che manifesterà pienamente l’identità e il potere di Dio.



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