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L’AMERICA LATINA INSTABILE

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L’America Latina vive un momento politicamente convulso. Dopo il primo decennio del 2000, caratterizzato dall’arrivo al governo di leader e partiti estranei alle tradizionali oligarchie e attenti a migliorare le condizioni di vita delle classi popolari attraverso programmi sociali finanziati dall’esportazione delle materie prime, il rallentamento dell’economia mondiale, unito al malcontento legato al permanere di forti disuguaglianze e della corruzione, ha condotto alla fine del “ciclo progressista” e a una fase di forte instabilità politica. Il teologo spagnolo José Ignacio Gonzalez Faus ha definito il 2019 “l’anno del disincanto e dell’indignazione” con rivolte popolari che hanno scosso Cile ed Ecuador, Haiti e Honduras, Porto Rico e Colombia, mentre in Venezuela la crisi socioeconomica sembra cronicizzarsi, in Bolivia la parabola di Evo Morales, primo presidente indigeno, pare giunta al capolinea senza che emerga un’alternativa credibile e in Perù le elezioni per il parlamento, sciolto dal capo dello Stato, Martin Vizcarra, hanno evidenziato un panorama politico polverizzato, con la conferma, tuttavia, della presenza sempre più stabile di formazioni di matrice evangelica.

LA FINE DEL CICLO PROGRESSISTA

Il ciclo progressista è stato caratterizzato dal recupero di consistenza istituzionale e potere di regolazione dell’economia da parte degli Stati, ridimensionati durante il periodo neoliberale, da un modello estrattivista di produzione ed esportazione di materie prime (idrocarburi, metalli preziosi, soia ecc.), il cui prezzo sul mercato internazionale era molto aumentato a causa dell’incremento della domande delle potenze emergenti (Cina in testa, ormai principale partner commerciale del continente), garantendo alla regione entrate senza precedenti, dal varo di estese politiche sociali a vantaggio delle classi popolari finanziate degli avanzi commerciali, dalla realizzazione di grandi opere infrastrutturali (strade, dighe, porti, idrovie ecc.) come pilastro per la modernizzazione dei paesi, da un progetto d’integrazione regionale attraverso organismi come l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (Alba), l’Unione delle nazioni sudamericane (Unasur) e la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac).

Tuttavia la nuova centralità degli Stati rispetto alle società civili s’è risolta in una smobilitazione dei movimenti sociali che negli anni ’90 avevano resistito ai governi neoliberisti e creato le condizioni per la considdetta “onda rosa” degli esecutivi di centrosinistra. Inoltre, dal 2014, il rallentamento delle economie emergenti, soprattutto asiatiche, seguito dalla “guerra dei dazi” scatenata da Washington contro Pechino, mentre l’Europa faticava a uscire dalla crisi, ha ridotto domanda e prezzi internazionali delle commodities e fatto entrare l’intero continente in recessione, confermando la dipendenza dell’America latina dall’esportazione di materie prime e dai mercati globali, rafforzata dall’aumentato peso del settore primario e dalla deindustrializzazione (salvo l’espansione della maquiladoras in Messico e America centrale, aree sempre più integrate con gli Stati Uniti).

Il calo delle entrate dello Stato ha ridotto le risorse disponibili per i programma sociali, pilastro del consenso popolare dei governi progressisti, determinandone l’indebolimento e in alcuni casi la caduta per via elettorale (la vittoria dell’ultraliberista Mauricio Macri alle elezioni del 2015 in Argentina) o attraverso forzature istituzionali (impeachment di Dilma Rousseff nel 2016 in Brasile), utilizzate anche da Nicolas Maduro in Venezuela ed Evo Morales in Bolivia per perpetuarsi alla presidenza. A questa crisi di legittimità hanno contribuito, prima di tutto il riprodursi delle disuguaglianze sociali, in cui l’America latina mantiene il primato mondiale, dato che la riduzione della povertà (peraltro invertitasi dal 2015) negli anni del boom delle materie prime è avvenuta mediante programmi assistenziali e di sostegno al reddito delle classi popolari e non varando riforme strutturali (agraria, urbana, fiscale ecc.) che producessero una redistribuzione della ricchezza, la quale resta per oltre il 70 per cento nelle mani delle oligarchie; poi il coinvolgimento in pratiche corruttive – peraltro comuni ai governi neoliberisti – legate all’assegnazione di contratti per la realizzazione delle grandi opere infrastrutturali funzionali al modello estrattivista (per esempio, con le tangenti pagate dal colosso brasiliano Odebrecht alle autorità di vari paesi); e la risorgente destra locale, che, pur scontando la perdita di credito dei partiti tradizionali (comunque ideologicamente rilegittimati dalle spinte reazionarie rafforzatesi negli Stati Uniti e in Europa), dispone dei maggiori mass media (l’argentino GrupoClarin, la brasiliana Rede Globo, la messicana Televisa ecc.), può contare sull’appoggio esplicito degli Stati Uniti, si avvale di una magistratura quasi sempre espressione delle élites dominanti e trova una nuova base popolare grazie all’attivismo di settori maggioritari delle Chiese evangeliche, in un rinnovato connubio tra valori d’ordine ed enfasi sul successo individuale che sposa autoritarismo e liberismo. Intanto lo spostamento a destra del governo del Brasile e l’instabilità politica in Venezuela hanno reso fragili le posizioni panamericaniste e paralizzato gli organismi del regionalismo autonomo da Washington.

IL RUOLO DELLA CINA IN AMERICA LATINA

La Cina – che dal 2010, puntando a fare del consumo interno, e non delle esportazioni, il motore dell’economia, ha ridotto la domanda di materie prime, concentrandosi sugli investimenti diretti o concessione di crediti per progetti di infrastrutture, energetici, di trasporto e logistici nel subcontinente, subordinati ai propri interessi strategici (apertura di corridoi per il rifornimento di petrolio, minerali e soia all’Asia e modernizzazione degli impianti portuali sulla costa pacifica latinoamericana) – è riuscita, facendo leva sul bisogno di capitali del continente, a evitare che l’ascesa di governi conservatori danneggiasse i rapporti commerciali, ampiamente in attivo per Pechino, e gli investimenti diretti. Con questa intensificata presenza economica la regione sta diventando lo scenario di una disputa per l’egemonia globale tra Cina e Stati Uniti, i quali puntano a guadagnare terreno nei settori legati al commercio digitale e soprattutto a mantenere il controllo delle politiche militari e di sicurezza mediante la lotta al narcotraffico e al crimine organizzato. “Tutto ciò porterà, prima o poi, a una collisione fra l’egemonia militare statunitense e la nuova egemonia commerciale cinese. Con che esito, lo dirà il futuro”, commenta l’analista ecuadoregno Decio Machado.

UNA NUOVA FASE POLITICA ALL’INSEGNA DELL’INSTABILITÀ

La fine del “ciclo progressista” apre una fase di incertezza politica, senza l’emergere di una tendenza predominante. Se, infatti, i governi di Venezuela e Nicaragua rafforzano i tratti autoritari per far fronte alle proteste sociali e quello dell’Ecuador completa la svolta in senso neoliberista riallineandosi pienamente agli Stati Uniti in politica estera, in Bolivia il tentativo di Morales di ottenere un quarto mandato si è infranto sulla reazione di diversi settori della società e sul “consiglio” dei militari di dimettersi, con la conseguente rottura dell’ordine costituzionale e l’elezione, in assenza della maggioranza dei parlamentari, della presidente ad interim Jeanine Añez, di destra, e in Brasile regge la coalizione di estrema destra tra ultraliberisti, ex militari ed evangelici (Biblia, boi e bala, per indicare i leader delle Chiese pentecostali, i latifondisti e i sostenitori della liberalizzazione dell’accesso alle armi), quello in Messico per la prima volta nella storia viene conquistato dal centrosinistra di Andrés Manuel López Obrador e quello argentino torna in mano al peronismo kirchnerista di Alberto Fernandez (su cui grava la pesantissima eredità economica lasciatagli da Macri), mentre in Uruguay vince le elezioni il candidato del conservatore Partito nazionale dopo 15 anni di amministrazione del Frente Amplio. E nel piccolo, ma significativo, Salvador, Nayib Bukele, un giovane caudillo dall’ideologia indefinita, riesce a rompere il bipolarismo tra destra e sinistra, e in Perù il conservatore Vizcarra si rafforza dopo aver sciolto il parlamento. Insomma, né la destra né i progressisti riescono a governare.

LE NUOVE RIVOLTE

Il calo dei prezzi delle materie prime e, quindi, la riduzione dei margini per programmi sociali finanziati senza toccare gli interessi delle oligarchie, insieme alla pervasività di politiche estrattiviste sempre più aggressive, sostenute dai governi di ogni colore, e di forme di controllo dei ceti medi e bassi delle città che alternano misure assistenziali e repressione hanno prodotto in vari paesi grandi proteste popolari, che in alcuni casi hanno assunto il carattere di vere rivolte, con protagonisti i giovani, i popoli originari e le donne: i primi, che faticano a vedere la possibilità di un futuro dignitoso, stretti tra la prospettiva di un lavoro precario e malpagato, e la violenza quotidiana di polizia e narcos; i secondi, che vivono direttamente l’espropriazione e l’inquinamento delle proprie terre e fondano la propria forza sull’organizzazione comunitaria e il proprio prestigio sull’incarnare modi di vivere potenzialmente non capitalisti; le ultime, che non tollerano più lo scarto tra la retorica dell’uguaglianza tra i sessi nel discorso pubblico e la realtà della discriminazione di genere e dei femminicidi, oltre a essere le prime penalizzate dal livello infimo dei servizi pubblici. Le sollevazioni sono diverse tra loro: per esempio, in Ecuador la mobilitazione contro la liberalizzazione del prezzo dei combustibili è stata diretta dalla Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie), sebbene poi, per la prima volta da anni, sia stata in parte scavalcata dai poveri delle città, mentre in Cile c’è stata un’esplosione spontanea, senza leadership, ma con una crescente organizzazione territoriale attraverso assemblee popolari e la convergenza attorno alla rivendicazione di una nuova Costituzione che superi quella varata nel 1980 dal generale Augusto Pinochet.

Queste grandi mobilitazioni potrebbero dare nuova linfa a movimenti popolari indebolitisi nell’ultimo quindicennio, senza che le proteste di quel periodo sedimentassero forme organizzative solide, salvo quelle legate ai bisogni materiali e culturali dell’abitare nelle città (Movimento dei lavoratori senza tetto in Brasile), mentre quelle dei soggetti penalizzati dai progetti estrattivi (contadini, indigeni ecc.) erano rimaste minoritarie, anche perché ormai l’80 per cento dei 580 milioni di latinoamericani è urbano. Facevano già eccezione in questo scenario lo sviluppo di un potente movimento delle donne, sorto in Argentina per protestare contro i femminicidi (Ni una menos) ed estesosi in tutto il mondo, e, in parte, quello degli studenti, soprattutto in alcuni paesi (Cile), mentre le mobilitazioni dell’opinione pubblica contro la corruzione, pur a volte capaci di costringere capi di Stato alle dimissioni (Guatemala, Perù), tendevano a rifluire in breve tempo senza dar vita a gruppi stabili. 

IL RITORNO DEI MILITARI

In questo contesto sono tornati alla ribalta i militari. Come ricorda l’analista uruguayano Raul Zibechi, “il coprifuoco in Ecuador e lo stato di emergenza in Cile hanno messo le Forze armate di fronte a responsabilità che non si assumevano da molto tempo. Anche in Venezuela i militari sono decisivi nel sostenere il governo Maduro, come in Bolivia lo sono stati nella caduta di Morales”. In Brasile più di metà dei ministri dell’esecutivo di Jair Bolsonaro, oltre a lui stesso e al vicepresidente Hamilton Mourão, sono militari o ex militari, e in Messico López Obrador ha creato una Guardia Nazionale che ha confermato la militarizzazione della “guerra alle droghe” e dei processi migratori. D’altro canto il credito di cui godono le Forze armate è minato dalle denunce di violazioni dei diritti umani, dalle accuse di corruzione e, in alcuni paesi, dal contenimento della spesa per la difesa.



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