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DAL SUD DEL MONDO QUALI RIFORME?

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Parlare di riforma della Chiesa è necessario per almeno tre ragioni: prima di tutto il modo in cui la comunità cristiana organizza le relazioni tra i suoi membri – soprattutto quelle legate ad autorità e potere – può inverare o smentire il messaggio proclamato, che si vuole di amore e servizio, non meno del comportamento dei singoli individui che la compongono. 

Inoltre, per dirla col teologo indiano p. Anthony John D’Cruz, “le immagini della Chiesa come ‘popolo di Dio’, ‘corpo di Cristo’, ‘tempio dello Spirito Santo’ diventano astrazioni finché non si attuano concretamente in comunità particolari di uomini e donne. La testimonianza della Chiesa come congregatio fidelium sta nella sua capacità di rendere storicamente concrete le categorie trascendenti in cui crede”.

Infine, come ricorda il teologo ispano-boliviano p. Victor Codina, “una riforma strutturale della Chiesa è necessaria perché la struttura attuale del potere ecclesiale concentrato in poche mani e non condiviso produce vittime: laici, donne, coppie, indigeni, poveri, omosessuali, teologi, preti e perfino vescovi che subiscono l’oppressiva struttura ecclesiale dominante. Non si può esigere dalla società il rispetto dei diritti umani quando questi sono violati molte volte sistematicamente nell’istituzione ecclesiastica”.

LE CHIESE DEL SUD 

Richiamare l’esistenza di uno specifico “punto di vista” del “Sud del mondo” implica riconoscere la soggettualità ecclesiale delle Chiese di Africa, Asia e America latina, in cui vivono i 2/3 dei cattolici. Ciò non è però acquisito. Certo, dal Concilio Vaticano II si è innescato, soprattutto in America latina, il passaggio dall’essere “Chiesa calco” (di quella romana) a “Chiesa fonte”, ma questo processo è lungi dall’essere compiuto, come dimostra anche il fatto che le Chiese africane e asiatiche siano tuttora dipendenti, anche per motivi finanziari, dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, di cui non a caso il teologo indiano p. Felix Wilfred auspica la chiusura, in quanto “riflette ancora la cartografia coloniale del mondo”. 

Eppure il cuore della riforma vista dalle Chiese del Sud pare proprio consistere nel completo dispiegarsi di questa soggettualità, inteso, da una parte, come il loro esprimere la fede in forme (dottrinali, liturgiche, etiche ecc.) legittimamente diverse e strutturarsi secondo le proprie specifiche culture e sulla base del proprio cammino ecclesiale, dall’altro il loro sedersi a pieno titolo alla tavola di una Chiesa cattolica latina anch’essa configurata come “Comunione di Chiese” (la Chiesa cattolica romana in quanto tale, com’è noto, lo è già, essendo formata da 24 Chiese sui iuris) per affrontare, a partire dalla propria identità, tutti i problemi della fede e della vita ecclesiale. In tal senso, uno sconcertante esempio a contrario è offerto dalla recente Commissione di studio sul diaconato delle donne, che, pur costituita in risposta al dibattito e alle richieste emerse dal Sinodo della regione panamazzonica, non vede al proprio interno alcun membro proveniente dall’Amazzonia né dall’America latina né dal Sud del mondo! 

DECENTRALIZZAZIONE

Di questa “decentralizzazione” Francesco ha parlato fin dalla Evangelii gaudium (nn. 16 e 32) ed essa comporta un trasferimento di poteri da Roma a organismi già esistenti, come le conferenze episcopali nazionali, e nuovi, come potrebbero essere conferenze episcopali regionali o patriarcati continentali. 

Secondo il teologo congolese p. Ignace Ndongala Maduku, “la Chiesa latina, con la sua struttura duale (articolata cioè tra primato papale e collegialità episcopale) non permette alle Chiese locali di realizzarsi come soggetti di azione. Tale realizzazione richiede strutture intermedie, per esempio Chiese regionali, cioè raggruppamenti di Chiese di una regione, in base ad affinità storica, culturale, sociologica nonché a problemi e sfide comuni”. Egli richiama l’idea esposta da Joseph Ratzinger nel 1971 di distinguere l’ufficio papale da quello patriarcale, creando nuovi patriarcati con un riconoscimento canonico delle assemblee continentali dei vescovi che comporterebbe competenze sull’organizzazione delle Chiese, la nomina dei vescovi, la liturgia, la catechesi, la morale, il diritto ecc. “C’è anche un interesse a promuovere”, continua p. Ndongala, “sinodi deliberativi nel senso di una collegialità effettiva. Inoltre è opportuno concedere alle conferenze episcopali una relativa autonomia, riconoscendone l’autorità dottrinale, quindi valore giuridico alle loro decisioni in campo liturgico, disciplinare e ministeriale, ‘acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente’ (LG 23; EG32)”. 

Collegata a questo c’è la necessaria ridefinizione del ruolo della curia romana, che, secondo p. Schickendantz, dovrebbe “mettersi al servizio delle Chiese locali”. Il processo dovrebbe proseguire a cascata, sottolinea la teologa colombiana Consuelo Velez: “Anche i vescovi di ogni Chiesa particolare dovrebbero vivere il loro ministero in forma più decentrata, affidando ad altri, compresi laici e laiche, responsabilità non per forza episcopali”.

RIFORME DAL SUD

Dopo il Concilio Vaticano II anche le Chiese del Sud hanno percepito, nelle loro menti più brillanti, l’importanza delle forme in cui la Chiesa si struttura e in alcuni casi realizzato significative pratiche riformatrici. 

Così dall’Asia sono arrivate, oltre allo sforzo per ridefinire l’unicità di Gesù come mediatore di salvezza, forme di rinnovamento della vita monastica alla luce del dialogo interreligioso, come gli ashram hindu-cristiani in India. Ma è venuta più volte anche la richiesta, per esempio dai vescovi indonesiani, di poter ordinare preti uomini sposati di provata fede, tanto che nel 1982 il card. Justin Darmojuwono, arcivescovo di Semarang, offrì a Giovanni Paolo II di dimettersi se non fosse stata concessa questa autorizzazione, che fu rifiutata, a differenza delle dimissioni. 

Al Sinodo dei vescovi del 1971 diversi episcopati africani appoggiarono la stessa proposta, poi negli anni approfondita da mons. Fritz Lobinger, vescovo tedesco-sudafricano di Aliwal, evolvendo nell’idea di ordinare in ogni comunità “equipe di ministri”. L’esperienza di rinnovamento più avanzata fu probabilmente quella attuata nell’arcidiocesi congolese di Kinshasa dal card. Joseph-Albert Malula, il quale promosse l’africanizzazione della vita ecclesiale, tra l’altro istituendo tre ministeri laicali (il responsabile di parrocchia o mokambi, l’assistente parrocchiale e l’animatore pastorale – gli ultimi due affidati anche a donne) e gettando le basi del “rito zairese”, approvato nel 1988 dalla Santa Sede. 

IN AMERICA LATINA

In America latina, poi, per quella parte della Chiesa che ha guidato il rinnovamento postconciliare la trasformazione della società in senso più libero, giusto e democratico andava di pari passo con la riforma della Chiesa, affinché desse spazio al pluralismo, alla partecipazione consapevole e alla comunione. Da qui le tre grandi opzioni compiute dalla II Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, svoltasi a Medellin, in Colombia, nel 1968: per i poveri, le Comunità ecclesiali di base e la “liberazione integrale”. 

Esemplare in tal senso è la figura di dom Pedro Casaldaliga, che così concludeva la sua “Lettera circolare fraterna” del 1998: “Mi permetto di gridare tre grandi sogni non più rinviabili: servire il Regno servendo l’umanità a partire dall’opzione per i poveri, vivere di fatto l’ecumenismo, riformare la Chiesa cattolica nelle sue strutture di potere, di ministero e di formulazione dottrinale”. Nel primo ambito ciò implicava, tra l’altro, “denunciare l’iniquità del neoliberismo come mercato totale, sistema di esclusione, idolatria del profitto, ecocidio incontrollato”; nel secondo, per esempio, “passare al riconoscimento reciproco delle Chiese come la Chiesa una e plurale di Gesù”, “comunicarsi insieme nella stessa eucaristia” e “servire profeticamente nella diaconia della ‘giustizia, pace e salvaguardia del creato’”. Per quanto, infine, riguarda la Chiesa, si trattava di “fare ‘della collegialità un esercizio di decentramento’ e trovare ‘una forma differente di esercizio del papato’, nonché rinnovare l’attuale sistema di nomina dei vescovi; ridefinire la figura giuridica delle nunziature in base alla rinuncia del papa alla sua ambigua condizione di capo di Stato; riformare e moltiplicare i ministeri per superare la clericalizzazione della Chiesa e la mancanza di cura pastorale che subiscono milioni di comunità in tutto il mondo; potenziare la partecipazione adulta e libera del laicato nella Chiesa e rendere effettiva l’uguaglianza della donna in essa attraverso la sua partecipazione a tutti i ministeri e posti decisionali, riconoscendoci tutti, nell’uguaglianza del battesimo e per il servizio del Regno, come popolo di Dio in Gesù Cristo; inculturare, alla luce e nella libertà dello Spirito, la teologia, la liturgia, il diritto e tutta la pastorale”. 

Anche di questo avrebbe dovuto occuparsi un nuovo Concilio ecumenico, che nel 2002 dom Casaldaliga, insieme ad altri 33 vescovi latinoamericani e 3 asiatici, chiesero al papa di convocare. L’appello non suggeriva solo un’assise episcopale, ma un “processo conciliare, partecipativo e corresponsabile, a partire dalla Chiese particolari, locali e continentali, affinché la comunità dei credenti possa pronunciarsi sui temi che ritiene più importanti e urgenti e i suoi contributi siano raccolti per il dibattito e le decisioni conciliari”.

Queste riflessioni, inoltre, si sono tradotte anche in esperienze di riorganizzazione delle Chiese locali, come a San Cristobal de Las Casas, in Messico, dove mons. Samuel Ruiz ha avviato il più organico processo di costruzione di una “Chiesa autoctona” (secondo i dettati di Ad Gentes 6 e 19), innestando i ministeri ecclesiali sul “sistema di cariche/incarichi” (principales, tuhuneles, rezadoras ecc.) delle comunità indigene. 

TRE AMBITI DI RIFORMA

Dal Sud emergono, dunque, due fondamentali criteri che devono guidare le riforme della Chiesa: l’inculturazione, con una specifica attenzione alle tradizioni religiose locali, e l’opzione/punto di vista per/dei poveri. Un’agenda delle riforme dal Sud può, quindi, ricondursi ad almeno tre aree: quella liturgica, quella ecclesiologica e quella del governo della Chiesa. 

Nel primo ambito si tratta di dare “maggior spazio al pluralismo di forme secondo culture e tradizioni” in vista di “una liturgia che alimenti e celebri la vita”, come chiede la religiosa messicana Socorro Martinez.

Nel secondo, avendo come obiettivo quello di rendere le strutture ecclesiali più conformi all’idea di Chiesa come popolo di Dio, bisogna rivalutare il sensus fidei dei fedeli, evidenziandone la specifica autorità, organizzare parrocchie come reti di comunità, anche valorizzando l’ethos di molte culture, come nel caso dell’ubuntu africano ricordato dalla teologa laica dello Zimbabwe Nontando Hadebe, promuovendo una Chiesa tutta ministeriale. In questo contesto appare necessario aprirsi all’ordinazione presbiterale di uomini sposati e collegare la formazione del clero alle comunità di base, affinché, per dirla con sr. Martinez, “i preti non continuino ad essere plasmati per una struttura centralizzatrice che ha potere decisionale su tutto”. Parallelamente si tratta di promuovere il ruolo dei laici, giacché, nota Consuelo Velez, “se la riforma della Chiesa non include la loro presenza con diritto di parola e voto in tutti gli organismi ecclesiali, non arriveremo mai a una Chiesa popolo di Dio”. 

Nel terzo, l’obiettivo risulta quello di superare l’accentramento del potere, anche perché, come spiega sr. Martinez, “i poveri fanno fatica a rapportarsi con una struttura di potere centralizzato”. Ciò dovrebbe tradursi prima di tutto, secondo p. Codina, nella “riforma del ministero petrino, affinché l’attuale esercizio del papato smetta di costituire il maggiore ostacolo per l’unità dei cristiani e il papa non sia più capo di Stato”, con la conseguente “revisione della struttura dei nunzi”. Ciò andrebbe accompagnato da “una profonda riforma della curia che si frappone tra il papa e i vescovi” e dall’attribuzione ai Sinodi di un ruolo deliberativo, “non solo sub Petro ma cum Petro”. Si dovrebbero poi riconsiderare criteri di selezione e meccanismo di nomina dei vescovi, restituendo alle Chiese locali e al popolo di Dio una voce in capitolo nella scelta dei propri pastori.

PUNTO D’ARRIVO

Dal Sud, dunque, emergono molte domande di cambiamento delle strutture ecclesiali, alcune legate allo specifico contesto socioculturale e religioso, altre comuni anche alle Chiese del Nord del mondo.

Il punto d’arrivo potrebbe essere riassunto in una definizione della Chiesa offerta dalla Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia: “Una comunione di comunità che fedelmente e amorevolmente testimonia il Signore risorto e raggiunge le genti di altre fedi e convinzioni in un dialogo di vita verso la liberazione integrale di tutti. È il lievito di trasformazione in questo mondo e serve come segno profetico che osa indirizzarsi oltre questo mondo verso l’ineffabile Regno che deve ancora pienamente realizzarsi”. 

LA POSTA IN GIOCO

La posta in gioco è descritta dal teologo argentino p. Carlos Schickendantz: “In pochi decenni, sapremo se con Francesco si è materializzata quella che Karl Rahner definiva l’interpretazione fondamentale del Concilio: l’inizio di una Chiesa mondiale, che non è più il frutto dell’esportazione del modello culturale europeo. La Chiesa deve essere all’altezza delle nuove sfide del mondo globalizzato: la diversità religiosa, il pluralismo culturale, l’ingiustizia e l’inequità, il paradigma dell’alterità. Queste possono essere adeguatamente affrontate solo con un processo di decentralizzazione e un rinnovato servizio del vescovo di Roma all’unità delle Chiese”. 

LA QUESTIONE DELLE DONNE

Trasversale a queste tre aree si pone la questione delle donne nella Chiesa, nel quadro, spiega p. Codina, del “superamento di ogni forma di patriarcalismo maschilista e androcentrico”. Questo implica, prima di tutto, secondo Hadebe, “contrastare la loro emarginazione, la violenza di genere e verso le minoranze sessuali”, quindi ascoltarle, dare loro spazio “nei dicasteri vaticani e negli uffici diocesani, negli organismi pastorali e in quelli della formazione degli stessi presbiteri, nelle delegazioni papali ecc.” e ripensare la loro esclusione dal ministero ordinato. Finché però, mette in guardia Velez, “il ministero ordinato non sarà profondamente rivisto, superando il clericalismo, è quasi meglio non pensare a questi ministeri per le donne”.



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