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Il Burundi si prepara ad andare alle elezioni il 20 maggio 2020 in un clima di incertezza e tensione. C’è persino il rischio che il triplo scrutinio – presidenziale, legislativo e comunale – si faccia a porte chiuse, senza osservatori esterni, con il pretesto del coronavirus. Il governo ha infatti scritto all’EAC (Comunità dell’Africa dell’Est), delegata dall’Ua come osservatrice, che gli osservatori avrebbero dovuto rispettare una quarantena di due settimane al loro arrivo in Burundi. Questo impedirebbe di fatto di seguire lo svolgimento delle elezioni. Le trattative sarebbero comunque ancora in corso. Il governo non ha accettato osservatori dell’Onu e dell’Ue, accusati di essere troppo vicini all’opposizione, soprattutto dopo la crisi iniziata nel 2015. Ad osservare l’evoluzione delle elezioni non ci saranno nemmeno i membri della società civile e della Chiesa cattolica, perché considerati troppo critici nei confronti del governo.

Il governo sta dunque usando la pandemia strumentalmente. Del resto, si vanta di avere pochissimi casi di contagio sul territorio perché “il paese è benedetto dalla grazia divina”, come ha affermato il presidente uscente Pierre Nkurunziza. Alcuni medici hanno allertato le autorità sanitarie circa la presenza ben superiore di casi, ma non sono stati ascoltati, anzi denigrati e accusati di mancanza di patriottismo. In realtà non si vuole turbare il calendario elettorale per cui tutte le attività hanno continuato il loro corso normale. Gli appelli dell’Oms non sono serviti a nulla. Anzi i membri dell’equipe permanente sono stati considerati persone non grate e hanno dovuto lasciare il paese il 15 maggio, anche se le frontiere sono chiuse. Ufficialmente le autorità confermano che la situazione è sotto controllo con l’aiuto del “buon Dio onnipotente”. In tutto il paese si fanno meeting politici senza alcun rispetto della distanza di sicurezza.

Sono sette i candidati alla presidenza, ma due i favoriti: il segretario generale del partito al potere Cndd-Fdd (Conseil national pour la defense de la democratie – Force de defense de la democratie), il generale Evariste Ndayishimiye, hutu, ex capo ribelle, cattolico, delfino di Nkurunziza, ex ministro degli interni e della sicurezza e capo del gabinetto militare e civile del presidente; e lo sfidante Agathon Rwasa, hutu, ex capo ribelle, cattolico, esponente dell’Cnl (Congres national pour la liberté), principale partito di opposizione che accusa senza mezzi termini il partito al potere di governare con la violenza e la corruzione. Tutti e due i candidati hanno partecipato alla guerra civile iniziata nel 1993 dopo l’assassinio del primo presidente democraticamente eletto, Melchior Ndadaye, e terminata nel 2003 con circa 300mila morti.

Secondo gli osservatori, sembra scontata la vittoria del candidato del partito al potere, soprattutto tutte le strutture e l’amministrazione dello Stato fanno propaganda per lui. Ma il Cndd-Fdd teme l’avversario, perché molto popolare. Per questo motivo la campagna elettorale è stata molto tesa. Il governo accusa il partito di Rwasa di essere l’unico responsabile dei disordini, mentre il Cnl accusa il governo di violenza di Stato, con la copertura degli Imbonerakure, giovani affiliati al partito al potere, cuore del sistema repressivo burundese, che l’Onu qualifica come milizie. Dall’inizio della compagna elettorale, il 27 aprile 2020, duecento tra militanti e quadri del Cnl e candidati per le legislative e comunali, sono stati arrestati, con l’accusa di intolleranza politica e di fomentare la violenza.

Il Burundi attraversa dal 2015 una crisi socio-economica e politica dominata da continue violenze, a causa della decisione di Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato, non previsto dalla Costituzione. In maggio 2015 un colpo di Stato, fallito, accresce la repressione. È il periodo in cui nasce un forte movimento di protesta contro il terzo mandato che trasforma persino la tradizionale divisione del paese secondo il criterio etnico tra hutu e tutsi in divisione di natura politica tra coloro che sono favorevoli al terzo mandato e quelli che sono contrari. Il partito al potere ha cercato di orientare la crisi etnicamente, ma la società civile e i partiti di opposizione non sono caduti nella trappola. Il governo reprime le manifestazioni nel sangue. Tra gli uccisi, arrestati e torturati, ci sono sia hutu che tutsi. Testimone di questo cambiamento di clima sociale è Pierre-Claver Mbonimpa, considerato il “Mandela burundese”, fuggito all’estero per salvare la vita, presidente dell’Aprodh (Associazione per la protezione dei diritti umani e delle persone detenute).

Le violenze allertano le istituzioni internazionali. La commissione d’inchiesta dell’Onu accusa il governo di commettere crimini contro l’umanità e domanda alla Cpi (Corte penale internazionale) di aprire un’inchiesta. Il regime non riconosce le accuse contro di lui e nell’ottobre 2017 diventa il primo paese africano a lasciare la Cpi. La commissione continua la sua ricerca e constata che la “normalizzazione” del governo consiste in una “riduzione degli spazi democratici e delle libertà civili”. Linguaggio diplomatico per dire esecuzioni sommarie, scomparse di persone, arresti e detenzioni arbitrarie, torture, violenze sessuali. Tutte queste violazioni hanno una dimensione politica. Ma la narrazione del governo è diversa: la democrazia è in pericolo, bisogna salvarla con ogni mezzo. Fatto sta che nel 2017 il governo chiude l’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.

L’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti dell’uomo HRW (Human rights watch) attraverso il suo direttore per l’Africa centrale, Lewis Mudge, ricorda che le autorità e gli Imbonerakure sono responsabili dal 2015 di numerosi atti di violenza in totale impunità. Secondo l’organizzazione, le violenze hanno provocato la morte di 1200 persone e 400mila sfollati. Gran parte degli oppositori, dei militanti per i diritti umani, dei giornalisti indipendenti, ha preso la via dell’esilio. Dopo il referendum costituzionale del 2018 l’influenza degli Imbonerakure si è ulteriormente allargata arrivando anche alla raccolta di fondi per finanziare queste elezioni. In molti rapporti sono descritti come ausiliari della polizia. I media sono censurati, il dibattito pubblico politicamente orientato, le Ong severamente controllate e le Chiese osservate speciali del regime. La Fidh (Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo) aveva denunciato anche la legge per rendere più severo il codice penale con l’intento di imbavagliare l’opposizione e fare pressione sulla popolazione a un mese dal referendum di maggio 2018.

Anche Rsf (Reporter sans frontière) aveva protestato quando in luglio 2019 il capo degli Imbonerakure è stato nominato direttore della radiotelevisione nazionale RTNB. Si tratta di un messaggio chiaro mandato all’opposizione interna: il sistema mediatico è totalmente controllato dal partito al potere. A quattro giorni dalle elezioni le organizzazioni della società civile accusano il regime di repressione sanguinosa dal 2015. La lega dei diritti umani Iteka, proibita nel paese, ha documentato 2245 casi di persone uccise, di cui solo 764 si è ritrovato il corpo.

In questo scenario, la sorpresa maggiore l’ha creata ancora Nkurunziza quando ha dichiarato che non si sarebbe presentato per un quarto mandato, anche se il referendum costituzionale di maggio 2018 è stato organizzato per questo, per restare legalmente al potere fino al 2034. Invece, il “Visionario del patriottismo burundese”, la “Guida suprema eterna” del paese, secondo la retorica del culto della personalità, lascia al suo delfino. Filip Reyntjens, fine osservatore della società burundese, in un’intervista a Rfi, sottolinea il fatto che Nkurunziza fa derivare la sua legittimità da Dio stesso. Siccome ha rischiato di morire durante la guerra civile, pensa che Dio lo abbia salvato e sia ancora Dio a volerlo presidente del paese.

Nella dichiarazione della Conferenza dei vescovi cattolici del Burundi in occasione della campagna elettorale, del 30 marzo, ma letta pubblicamente il 12 aprile, i vescovi dichiarano che le elezioni costituiscono il luogo dell’espressione della propria scelta politica, un segno che legittima chi governa, un momento privilegiato di dibattito pubblico sano e sereno, rispettando le diverse opinioni. Nel tempo di Pasqua, che segna la vittoria dell’amore sull’odio e ogni male, i vescovi chiedono che si faccia il possibile affinché le prossime elezioni si svolgano in pace, libertà, trasparenza e sicurezza. I vescovi fanno riferimento a pratiche già utilizzate in altre elezione, quando domandano ai burundesi di non lasciarsi dominare dall’odio e dalla violenza, a non dare credito a coloro che vogliono corrompere con regali avvelenati, a non lasciarsi intimidire nel voto da dare.

Ma nel messaggio dell’8 maggio 2020, letto dal presidente della conferenza episcopale, Joachim Ntahondereye, i vescovi si dichiarano molto preoccupati del comportamento di politici che fanno uso di linguaggi ingiuriosi che suscitano sentimenti bellicosi in chi li ascolta. I prelati si rattristano per i morti e i feriti dell’intolleranza politica; condannano sparizioni di persone e si dicono perplessi davanti a quei politici che non sembrano pronti a riconoscere la loro sconfitta. Si mostrano critici nei confronti delle forze dell’ordine che non sono imparziali. Richiamano tutti i candidati e i partiti al rispetto del codice elettorale con i protocolli di condotta da loro stessi approvati. Alla radiotelevisione nazionale i vescovi domandano una copertura equa della campagna elettorale per tutti i candidati e a tutta la popolazione di non perdere mai l’umanità, dando prova di patriottismo e di amore del prossimo, come fautori di pace, pronti ad abbracciarsi ad elezioni avvenute

Un testimone locale ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Qui, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali, la campagna elettorale surriscalda gli animi dei candidati ma soprattutto dei sostenitori. Il partito al potere minaccia di far sparire gente, uccide. Sta creando un clima di odio e di caccia al nemico politico, malgrado che sia i sostenitori di Evariste che di Rwasa siano della medesima etnia e ambedue cattolici. Una buona parte dei giovani delle cosiddette milizie che affiancano la polizia (Imbonerakure), facevano o fanno tuttora parte dei movimenti di azione cattolica locale. Hanno combattuto tutti insieme per cancellare il regime Buyoya. Ora si combattono tra loro, tra fratelli, della stessa famiglia ma di diverso colore politico. I due candidati e rispettivi campi hanno già dichiarato che non accetteranno mai la sconfitta. Che cosa sarà il dopo elezioni?”.

La campagna elettorale è terminata il 17 di maggio. Ma si teme che i disordini si trasformino in conflitto aperto, perché anche Rwasa chiama ormai i suoi militanti a rispondere colpo su colpo quando sono attaccati dagli Imbonerakure, espressione della polizia direttamente legata al presidente, una vera macchina repressiva, che fa regnare il terrore.



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