Sierra Leone, andata e ritorno
Tra macerie di guerra e spaccapietre
Padre Filiberto Corvini è tornato in Sierra Leone per una breve visita. Ha fatto da guida al cardinale Tomko per l’ordinazione di quattro giovani sacerdoti e due diaconi a Makeni.
Avevo tanto desiderato rivedere la Sierra Leone che, al momento di partire, mi è venuta perfino l’ansia; anzi, mi ha preso un vero e proprio panico: il panico dello schiaffo morale!
Il ricordo della distruzione
Le ultime immagini della Sierra Leone che mi ero portato dentro la mente non erano più quelle di un Paese meraviglioso, ma le immagini della guerra. Kamakwie era in fiamme; cadaveri sparpagliati e maleodoranti lungo le strade di Foradugu; otto donne che mi salutavano con i loro moncherini fasciati per le barbare mutilazioni subite all’ospedale cattolico di Lunsar.
Lungo la strada c’erano numerose carcasse di macchine, tra cui anche una della missione. Ricordavo l’ultimo Natale, iniziato con i boati del cannone e terminato di sera raccogliendo con il camion la gente sfinita per le lunghe corse sulla strada Makeni - Magburaka.
Avevo lasciato la Sierra Leone con la convinzione netta che la guerra non fosse altro che un’attività da balordi, un grande apparato di follie perché i balordi avessero il loro teatro pubblicitario. Ricordavo con dolore le colonne dei bambini soldato, stralunati dalla droga, che si trascinavano dietro i fucili mitragliatori.
Mi ero fatto un’idea precisa dei cosiddetti potenti e cioè che “al macello, prima della pecora va l’agnello”.
Masse umane che si spostano
Tornato, dopo vari anni, nella Sierra Leone del dopo-guerra, il primo impatto è stato quello di incontrarmi con masse di gente scoraggiata. Il cibo possono anche averlo, suppongo. Nel mondo c’è tanto cibo in eccedenza e ci sono tante agenzie umanitarie che si fanno carico di farlo arrivare ai poveri! Agenzie che seguono il principio evangelico “non sappia la destra quello che fa la sinistra”; e altre agenzie che sono a caccia di simpatie, legami politici e prospettive economiche redditizie...
Anni fa in Sierra Leone, l’occhio si appagava di ottimismo nel vedere schiere di ragazzi che andavano a scuola in divisa, impiegati che facevano sfoggio della loro legittima dignità, contadini che andavano a frotte verso il mercato con i loro cestoni pieni di prodotti. Adesso tutto questo non c’è più. Le campagne sono ancora spopolate, gli edifici pubblici e le scuole sbudellate e sventrate. Arrivano gli aiuti; si mangia, forse a sufficienza; ma impressionano le masse. Masse che vanno e vengono: vanno piano; vanno con gli occhi spenti e con i piedi divaricati, quasi per minimizzare lo sforzo. Ma dove vanno?
Un martello che vale un capitale!
L’unico lavoro abbastanza diffuso, che ho visto un po’ dovunque, è quello dello spaccapietre: uomini e donne che frantumano a martellate massi di granito. C’è grande richiesta di pietrame, infatti. Le organizzazioni umanitarie lo cercano per costruire edifici e le residenze per i loro impiegati. Spaccapietre! Sono uomini e donne, ma si dovrebbero più precisamente chiamare schiavi.
Dal mattino alla sera smartellano pietre, sferzati dal sole, ricoperti dalla polvere e costretti alla fatica dalla voglia di sopravvivere. Il loro capitale è il martello. Investire su un martello, che ha un costo quasi pari al salario di un maestro!