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Osservare per farne tesoro

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La comunità saveriana di Alzano è composta da missionari che hanno trascorso tanti anni in territori d’oltremare, come si diceva un tempo. Nelle varie missioni (Brasile, Congo, Sierra Leone, Giappone, Messico e Bangladesh) hanno lasciato i… migliori anni della loro vita. Alcuni di loro hanno difficoltà a scrivere, ma non a raccontarsi. Tocca ora a p. Piero Lazzarini di Torre Boldone. In Sierra Leone ha vissuto una guerra tremenda con situazioni drammatiche, ma ha ricevuto anche l’affetto della gente. Ecco il suo primo racconto.

I giovani missionari, finita la teologia e dopo l’ordinazione, sognano di partire immediatamente per la missione. I superiori chiedono sempre se hanno preferenze, ma essere destinati alla missione sognata a volte rimane un… sogno. E non sempre si può partire subito perché la famiglia missionaria ha bisogno anche di preparazione, formazione, organizzazione dei viaggi. Oggi la definiremmo logistica.

Il nostro fondatore, san Guido Maria Conforti, non ha voluto fonti fisse di sostentamento se non la carità della gente. Nelle Costituzioni dice che siamo missionari tutti insieme. La missione è unica, comunitaria e non importa dove si svolga. Sono stato tra coloro che hanno atteso qualche anno prima dell’invio in missione. La Scozia è stata la mia prima destinazione. Delusione? Frustrazione? Per niente. Credevo fermamente a quanto diceva il Fondatore. La Scozia è stata un’ottima e provvidenziale preparazione alla missione africana in Sierra Leone, ex colonia britannica la cui lingua ufficiale a tutt’oggi è l’inglese e la cui struttura governativa e impianto educativo sono profondamente segnati dal modello britannico.

La mia prima destinazione è stata Yonibana, un villaggio dell’interno. Questa missione era stata aperta qualche anno prima da uno dei saveriani pionieri. C’era la chiesa parrocchiale, qualche cappella nei villaggi circostanti e un ambulatorio. Il parroco era un saveriano spagnolo. Per il dispensario c’era un fratello infermiere italiano. La prima domenica, dopo la messa, concelebrata col confratello spagnolo, c’è stato un incontro inaspettato, curioso e indimenticabile. Finita la messa, mi sono intrattenuto con alcune donne che avevano con loro una bambina di circa tre anni. Naturalmente, si fanno i complimenti per avviare la conversazione. Io in inglese, loro in krio/creolo, la lingua usata per comunicare tra le diverse tribù. “Che bella bambina, chi è la mamma?”. “La mamma non c’è più”. “Questo è molto triste”. “Padre, tu dovresti sposare questa bambina”.

Non credevo alle mie orecchie! Avevo ben capito il senso? Rimasi inchiodato, ammutolito, imbarazzato. Non era uno scherzo, anzi un affronto. Ricordo che mi passarono per la testa due pensieri. “Ma questa gente non ha ancora imparato che il missionario non si sposa? E per di più con una bambinetta?”. Me la sono presa pure con i miei confratelli che non avevano ancora insegnato a questa gente aspetti basilari.
Certo, avevo ancora l’armatura di una cultura cristiana secolare. Col senno del poi provo compassione per me missionario novellino, zelante, che si scandalizza il primo giorno della sua vita missionaria non sapendo di fatto quale significato avesse per davvero una frase come quella detta dalle donne.

A pranzo, non feci mistero della mia sorpresa ai confratelli per quanto era successo poco prima. Essi accolsero il racconto con un sorriso bonario, come di compatimento, e cominciarono a introdurmi in un aspetto interessante della cultura della Sierra Leone. A Yonibana, il primo problema della gente, molto povera, è quello della sopravvivenza. Come fa una bambina povera e orfana a campare? Bisogna che qualcuno la sposi, cioè che si prenda cura di lei, che si impegni per aiutarla a sopravvivere, che a suo tempo possa pagare la retta scolastica, che le offra un futuro. Poi lei, cresciuta, potrebbe anche accettare di diventare tua sposa.

Dopo questa spiegazione, tutto tornò più naturale. Quella prima lezione, inaspettata e certamente molto interessante, mi aiutò, più tardi, nel mio lavoro a capire la loro cultura, per poter incarnare la buona Novella in modo che risuonasse la grande novità del messaggio di Gesù in un linguaggio familiare e comprensibile.
Nella missione di Freetown, poi, ho conosciuto alcune coppie che si erano formate proprio così. Erano serene, contente, con parecchi figli. Imparai così a non meravigliarmi troppo e ad andare oltre le apparenze: guarda, osserva, per farne tesoro.



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