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''Nati sotto lo stesso limone''

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La coscienza missionaria della chiesa dedica il 24 marzo alla memoria dei cristiani martirizzati durante l’ultimo anno. Quest’anno la memoria dei martiri è turbata dal timore che un altro genocidio, simile a quelli già avvenuti in Ruanda e Burundi, ferisca ancora la nostra umanità, nella repubblica Centrafricana.

Noi missionari conserviamo vivo il ricordo di quelle tragedie. Allo stesso tempo siamo custodi di storie e testimonianze che ci fanno pensare come, insieme a quei martiri, escono dalla scena di questo mondo esempi di grande umanità. Voglio ricordare qui due testimonianze di alto profilo umano, anche se poco conosciute.

Un esempio di grande umanità

La prima testimonianza è quella dell’abbé Michel Kayoya, uno dei primi preti burundesi sepolti nelle fosse comuni. Prima di essere ammazzato aveva chiesto ai suoi persecutori di consegnare a sua madre la stola sacerdotale che indossava.

Dell’abbé Michel conosco la riflessione che egli stesso ha lasciato scritta sul padre, sulla madre e su noi europei. Pagine profonde e stupende. Quanto potrebbe aiutare la chiesa di papa Francesco e di Lampedusa, la frase in cui egli riconosce l’origine comune di africani ed europei. Una frase piena di colore: “Tutti e due siamo nati sotto lo stesso limone”.

Mio padre e mia madre

“Ho sempre amato l’uomo, questo essere fragile e forte. La fragilità suscita la pietà, la forza vera, l’ammirazione.

L’ammirazione e la pietà sono degne dell’uomo. Mai l’una con esclusione dell’altra. Come tanti altri, io volevo diventare un uomo. Un uomo del mio popolo. Un uomo verso i miei fratelli. Un uomo per l’umanità. Diventare un uomo deve essere difficile. Sempre teso verso il Bene, sempre intento a fare il bene, senza arresti. Quando si comincia, non si finisce più con il rischio di morire mentre vivi.

Mio padre è un uomo. Io volevo diventare come mio padre. Mio padre è l’uomo, l’uomo potente, l’uomo pensante. È impressionante come mio padre ami la solitudine. Non rifugge la società, è comunicativo. È padre e si dona. È dono, lui non distingue. Non distingue per separare, ma per valutare la forza che gli è necessaria per donarsi. Mio padre è un uomo. Mio padre incarna l’umanità, per me.

Mia madre corrispondeva a lui. È straordinario come mia madre mi amava. Ho letto molti libri e dentro i brani commoventi sulla tenerezza delle madri, cercavo il ritratto della donna che mi ha portato in grembo. Di lei conservo un’immagine fresca che non scompare neppure quando mi trovo in sua presenza. Mia madre era adorabile quando parlava ai suoi figli. Metteva a nudo il suo cuore, cuore aperto, cuore materno. I due rimangono importanti per me”.

L’umano dentro l’uomo bianco

“Ho viaggiato in Europa e là ho imparato l’umano che è dentro l’uomo bianco. Prima non l’avevo mai visto. Avevo visto l’uomo bianco senza guardarlo. Lo trovavo un essere superiore, lui si voleva considerare tale. Ero piccolo e mi volevo altro da lui. Fino ad allora lo avevo visto con la mia immaginazione, con la mia pre-comprensione. Oppure nei pregiudizi di quelli che mi circondavano. Improvvisamente si è come svelato davanti a me. In lui non ho colto umanità diversa da quella vissuta in casa di mio padre. L’amore, la gioia, la paura, la speranza, l’orgoglio, la pietà, la vanità, la donna, il denaro, il rispetto, la dignità, la menzogna, l’imprudenza, l’egoismo, l’avarizia, la testardaggine.

Ho sempre creduto che siamo nati sotto lo stesso limone, tutti: loro e noi.

L’uomo bianco si lascia vedere uomo dentro casa sua. Ma quando esce di casa, diventa obbrobrioso. Analizza, spia, osserva, classifica, definisce. Si appropria, conquista, domina.

Che cosa? Tutto. L’erba che appassisce e rinasce, l’osso, il legno secco, il legno verde, l’uccello che cinguetta, il fiore dei campi, il bambino innocente, la donna, il sorriso, il gesto appropriato, il gesto maldestro, il corpo, il cuore, lo spirito, l’uomo…”.

Philbert: tutti giù dal camion

La seconda testimonianza è quella di Philbert (nella foto sopra), che è sopravvissuto al genocidio e racconta come sia riuscito a trasformare dal di dentro ciò che avrebbe dovuto essere il suo drammatico martirio. A me è capitata la buona sorte di conoscere personalmente Philbert e di ascoltare dalla sua viva voce come gli riuscì di salvare la vita a moltissimi uomini e donne destinati alla fossa comune.

La sua vicenda rientra nella guerra civile in Burundi, che va dal 1994 al 2004. Io mi sono trovato ad assisterlo a morire per un tumore al pancreas, nel 2006, e lui mi fece parte della sua dolorosa ed eroica esperienza. Ecco il suo racconto.

“Un presidio di soldati ruandesi era entrato nel villaggio. Sparavano sulle capanne. Fuori dalle capanne, qualcuno tentava di avventurarsi in una fuga impossibile. I soldati intimavano loro di fermarsi. Così, ci hanno ammassati sul ciglio della strada, sotto il sole. Intanto, al centro della strada volavano sedie e banchi delle scuole e del centro sanitario. Sul far della notte il colonnello aveva ordinato ai soldati di caricare uomini, donne e bambini su un camion.

Lui stesso era montato sul camion a fare la conta quando, a sua sorpresa, tra i prigionieri ha scorto me, Philbert, suo amico d’infanzia. Subito mi ha intimato: «Philbert! Fratello, scendi. Allontanati, perché questo carico è diretto alla fossa comune». Rimasi fermo dove ero e gli feci eco: «Scendo solo a una condizione: se con me fai scendere anche gli altri». Alla fine il colonnello ha liberato tutti quanti, me compreso…, grazie a Dio!”.



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