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Morire o vivere per la patria?

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Ottobre del 1916: sempre attaccato all’amore materno, fui chiamato a fare il servizio militare, proprio quando la guerra echeggiava nel Carso, tra Italia e Austria. Giorni dolorosi! Prima di lasciare la casa, la mia buona mamma mi dette un suo manoscritto dove, tra l’altro, diceva: “Caro figlio, …ora che parti dagli occhi miei, ti do queste due rughe, che tu devi leggere ogni giorno e ti saranno di conforto e di guida, affinché ti mantenga buono! E vedrai, ti aiuteranno a superare i tanti pericoli della guerra…”.

L’ultimo addio e l’ultimo bacio, con il cuore spezzato dal dolore, devo lasciare la mia cara madre e la mia famiglia!

La vita da recluta in libera uscita

Vengo assegnato al 71° reggimento di fanteria a Tarcento, in provincia di Udine, per le istruzioni di recluta. Ogni sera c’è libera uscita e tutti escono in compagnia, ma io preferivo andare da solo. La mia soddisfazione era entrare nella chiesa più vicina, davanti al Tabernacolo e all’altare della Madonna. Mi raccomandavo tanto alla Mamma Celeste e ricordavo la mia cara madre, che tanto amavo! Aprivo le sue righe e con tanta commozione le leggevo: le lacrime mi bagnavano la faccia, e mi sentivo soddisfatto! Sentivo che il mio cuore era tranquillo e mi ritiravo per il riposo in caserma.

Per tutto il tempo delle istruzioni da recluta, la mia vita era così: libera uscita fino alla vicina chiesa, e nelle ore di riposo in caserma; quando tutti giocavano e saltavano, io restavo seduto sulla mia branda a leggere o scrivere. Per corvè o per ramazza, arrivava il caporale di giornata e prendeva sempre chi era in ozio, lasciando me, perché ero sempre occupato.

Passati i tre mesi di istruzione, facciamo il giuramento; così siamo preparati per andare contro il nemico. Andiamo verso il fronte nel Carso: monte San Michele, monte Nero, monte Santo. Facevamo 15 giorni di fronte e 15 giorni sulle retrovie, fino al 28 maggio del ’17, quando ci avviamo al fronte. I superiori che andarono a ispezionare la posizione per poi farci proseguire nella notte, bevevano Cognac per farsi coraggio; erano tutti mezzi brilli e dicevano tra loro che il fronte era tanto pericoloso.

Quella sera del 28 maggio…

Ricordo che si doveva dare il cambio a un reggimento di bersaglieri, ma quella sera sull’imbrunire, mentre consumavamo il rancio, tutti distesi dietro un monte, ecco che siamo scoperti dagli aerei austriaci. Ho visto e sentito scoppiare due grosse bombarde, da una parte e l’altra dove stavo io, che hanno fatto una buca profonda e larga 15 metri. Quanta paura!

Dei poveri compagni che si trovavano là, non è rimasto più nulla. A me è stato comandato di portare a basso le marmitte del rancio, e ho visto da una parte le teste e dall’altra gambe e braccia!

Ho pianto nel vedere i miei compagni fatti a pezzi. Ma bisognava andare avanti.

Al comando di un capitano dei bersaglieri, ci avviamo per sentieri impervi e sconosciuti. Pioveva, e si andava avanti a sbalzi e poi ci si fermava, anche perché le pallottole delle mitraglie fischiavano alle orecchie. Sempre così fino a quando è spuntata l’alba. Eravamo talmente stanchi quando ci si fermava, che non si badava a pioggia o fango, ma subito ci si sdraiava a terra. Ricordo, ero tanto stanco che mi addormentavo!

Nella trappola del nemico

All’alba, quando si può scorgere qualcosa, vedo che ci troviamo a pochi passi dal nemico. Noi eravamo tutti sparpagliati a terra; il terreno era come una pianura vicino al Duino, a fianco di Monfalcone e non lontano dal fiume Isonzo.

Il nemico era al sicuro: avevano una bella muraglia fatta di crode, e tutti erano forniti di mitraglia, mentre noi avevamo qualche pezzo di roccia rotta dalle bombe, per ripararci la testa! Tutto a un tratto, sento gridare all’assalto col grido di “Savoia!”.

Pioveva. Che brutti momenti! Ricordo, invocai: “Gesù e Maria, io sono vostro, aiutatemi!”. Così, pronti per l’assalto. Ma il capitano ci aveva portato troppo sotto: il nemico ci aveva già serrati con le mitraglie, che non potevamo né scappare né occupare le sue trincee. Così, al grido di “Savoia!” siamo andati avanti.

Morire o vivere?

Dovevamo prendere la decisione in un istante: o darsi prigionieri o morti. Vedo che chi tornava indietro cascava a terra morto! Che disperazione!

Pensai: “Piuttosto che morire, è meglio vivere per la patria, anche prigioniero!”.

Così lasciai il tascapane pieno di bombe a mano e il fucile, e ci siamo messi a correre verso Lubiana, guidati da alcune guardie austriache.

Ma dopo pochi minuti è arrivato l’ordine dalle artiglierie italiane di montagna: anche loro ci sparavano alle spalle. Così abbiamo corso mezza giornata con tanta paura. Correndo, si vedevano qua e là delle guardie morte ancora in piedi, tutte nere carbonizzate dai gas italiani.

Finalmente arriviamo a Lubiana e poi veniamo trasferiti al campo di concentramento di Mauthausen. Da lì cominciamo a vedere e a provare la dura vita della prigionia.



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