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La dura prigionia di guerra

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Il giorno seguente ci chiamano in fila e ci fanno come una predica, che l’interprete man mano ci spiega in italiano. Poi una compagnia di disciplina comanda che ci disponiamo in righe; chiama tre prigionieri italiani, uno per volta; li fanno buttare a terra con la faccia in giù; uno di loro gli teneva una mano sul collo e due, uno per parte, con un nervo di bue gli sferzano tutto il corpo. Dopo tante nervate, li hanno presi sulla barella e portati all’ospedale. Io tra me dicevo: “Stavo meglio al fronte che qui!”.

Comincia la fame e la sete

Dopo alcuni giorni, formarono delle compagnie. Anch’io ero destinato a una compagnia aggregata al genio austriaco. Quindi partiamo per lavorare con loro: ci caricano come le bestie, nei vagoni da bestie, per introdurci in Ungheria. Arrivati dopo tanti stenti con quella tradotta che poco camminava, ci portano in un paesetto chiamato Raos, all’inizio dell’Ungheria. Chiediamo l’indirizzo per scrivere a casa. Ci danno i biglietti della Croce Rossa: se ne poteva scrivere uno ogni 15 giorni.

Ed ecco, il giorno dopo ci portano al lavoro: ci danno un grosso martello e dobbiamo rompere la roccia per fare la breccia per le strade. Vicino avevamo sempre una sentinella armata con la baionetta innestata. Dovevamo lavorare senza mai parlare con nessuno, perché se ci vedevano raggruppati a parlare, erano botte; il loro sospetto era che noi dicessimo male di loro.

Comincia la fame e anche la sete. Poco pane e un mestolo d’acqua calda con dentro un po’ di farina di granturco: quello era il nostro cibo. Passati due mesi, cominciava ad arrivare qualche notizia e qualche pacco dall’Italia; ma io, mai niente!

La vita si fa sempre più dura

Arriva un ordine: la compagnia deve trasferirsi in Galizia, in un paesetto chiamato Fremes. Ed eccoci in cammino. Dopo una settimana arriviamo. Avevamo due cavallini ungheresi; ma quelli portavano il corredo della fureria e alcuni di loro; noi sempre a piedi. La notte ci si fermava per riposare dove c’era qualche casa danneggiata dalla guerra, che avevano fatto contro la Russia.

A Fremes eravamo in una baracca di legno; dormivamo su tavole, con due misere copertine da campo.

La vita si fa sempre più dura. Pazienza, con la speranza che presto la guerra finisca. Così si viveva sperando.

Qui lavoravamo con delle mazze di ferro appuntite, per fare dei buchi nelle montagne di roccia per poi piazzare le mine e fare la breccia per le strade.

Il giorno di festa lo occupavamo per fare la pulizia dei panni, camicie, mutande (chi le aveva!), sempre senza sapone. Già si cominciava ad avere la compagnia, cioè i pidocchi; anche quelli cominciavano a darci disturbo.

Frequenti cambiamenti, stesso lavoro

Lì siamo stati circa 50 giorni. Poi, un altro ordine: si deve andare in Bucovina (un territorio tra la Romania e l’Ucraina). Proprio in quei giorni cominciava ad arrivare qualche pacco di pane e pasta dalle nostre famiglie! Ma ora, cambiando indirizzo, tutto è perso.

Si fecero circa duecento chilometri per arrivare: una settimana di cammino, sempre a piedi. Abbiamo dovuto attraversare tutti i Carpazi: monti con boscaglie di pini e le strade fatte di pini messi per traverso, uno avanti l’altro; così era formata la strada.

Arrivati a destinazione a Cernovis (Czernowitz), capitale della Bucovina, anche qui siamo stati circa due mesi. Poi, come il solito, si cambia ancora: si va in Romania, ai confini della Russia. E anche là, dopo 40 giorni, si deve cambiare. Ormai perdiamo la speranza di ricevere notizie dalle nostre famiglie e anche i pacchi di viveri.

Dobbiamo tornare indietro e attraversare di nuovo i Carpazi. Ma ora siamo d’inverno e il freddo si fa sentire! Quelle strade piene di neve e i pini di quelle boscaglie pieni di neve gelata, con un po’ di vento i rami si spezzavano e cascavano a terra. Quel viaggio fu duro. Ogni tanto si faceva una tappa, e un mio compagno, andato per fare i suoi bisogni, rimase indurito dal freddo, morto gelato! Furono giorni terribili: l’orina gelava prima di toccare terra.

“La notte non trovavo pace!”

Il pensiero dei genitori mi pungeva il cuore. Che pena in quella settimana di viaggio! Io la notte non trovavo pace. Eravamo in una casa senza tetto: solo i muri in piedi. Provavo a coricarmi, perché ero stanco, ma invano; non trovai riposo. Dovevo alzarmi e camminare pian piano per riscaldarmi e far tacere il dolore che sentivo ai fianchi.

Continuai così per qualche giorno. Poi, non potendo più andare avanti, marcai visita e mi portarono in infermeria. Passai alcune visite, ma febbre non ne avevo. Così dopo tre giorni mi fecero uscire, ma ormai la mia compagnia era andata distante e non potei più raggiungerla.

Ci fecero lavorare in un campo di concentramento russo, in cima a un monte chiamato Tucclà.

Ogni giorno dovevamo fare 4 - 5 chilometri per andare in basso, alla stazione, e prendere travi e tavole per fare delle baracche.

Il pane era poco: una pagnotta ogni 15 persone, e la nostra minestra era sempre quella: un po’ d’acqua calda e con 4 chili di farina di granturco doveva bastare a più di cento persone.

Ricordo bene che un tempo ci davano una pagnottella di pane e doveva bastarci cinque giorni. Tanti se la mangiavano subito. Io e un mio compagno di Morlengo (Treviso), invece, ne mangiavamo un pezzetto, stendendo il fazzoletto per terra per non perdere le briciole; poi lo chiudevamo nella nostra cassetta con lucchetto, dicendo di mangiarlo ancora domani e domani l’altro.

Ma poi per la fame non si poteva dormire, pensando al pezzo di pane rinchiuso. Così per tutta la notte, apri e chiudi; la mattina, il pane che doveva bastarci cinque giorni l’avevamo consumato in una notte!



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