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Scrivere di fratel Gino Masseroni non è semplice, perché non si può ridurre a poche righe la grandezza che quest’uomo ha rappresentato per molti e poi perché scriverne significa fare i conti con la sua assenza.
Fratel Gino ci ha lasciato alla mezzanotte del 19 marzo, all’inizio di un giorno in cui liturgicamente si ricordava san Giuseppe, il suo santo più amato.

Dalla sua amata Cremona, luogo di preziosi affetti familiari, passando per San Pietro in Vincoli e Parma, ecco il viaggio per la missione in Brasile Sud: “In 12 anni ho potuto dare molto di me, ma ho anche ricevuto tanto da quelle popolazioni semplici e povere. Ho avuto una grande carica di amore, perché essi vivono in maggior comunione e con grande semplicità. Chi vive nella povertà e nella sofferenza quotidiana, ha una disponibilità e una sensibilità molto più grandi verso gli altri”.
Il rientro in Italia risale al 1968, anno di cambiamenti epocali: “Non fu facile per me parlare ai giovani. Riuscivo a toccare il loro cuore e ad avere la loro attenzione attraverso esempi di vita di fede vissuta insieme ai miei fratelli brasiliani, un mondo di fede e di vera umanità! Fu di fatto un rimettermi in gioco!

Dopo diversi anni in diverse comunità saveriane in Italia, nel 1995, fratel Gino è destinato a Macomer. Si apre così una storia durata 20 anni. Erano gli anni dei grandi gruppi giovanili missionari. Fratel Gino, nel suo ruolo di economo e animatore vocazionale, trovava sempre qualcosa da affidare ai giovani in casa: “Ci sarebbero da lavare i vetri al terzo piano…” o la più famosa “C’è da spostare un pianoforte!”. Quanti viaggi su e giù per le scale con quel pianoforte! Ne nascevano simpatici siparietti e imitazioni e quanto si divertiva quando si rendeva conto che la sua parodia era veritiera!

Ma la sua accoglienza non era solo per i giovani. Aveva una delicatezza unica nelle relazioni con le benefattrici, in particolare per quelle anziane e sole: telefonate, lettere, e-mail. Aveva sempre tempo da regalare a tutte, non dimenticando mai di tenerle aggiornate sulle missioni. Chiunque a Macomer avesse una necessità, sapeva che, suonando il campanello in Via Toscana, avrebbe trovato ascolto e un aiuto concreto: nomadi, disoccupati, persone con problemi di dipendenze, donne in difficoltà con bambini piccoli. E lui, con l’umiltà che lo caratterizzava, non si capacitava della fiducia che le persone riponevano in lui.

In casa non faceva mai mancare due piccole cose, simbolo del suo senso di accoglienza, i bitter e il gelato. I bitter da offrire a chi si trovava di passaggio e alle sue care volontarie, ogni settimana al termine delle pulizie dell’istituto; il gelato per i volontari che aiutavano in altre attività. “Mi sento felice e realizzato”. Erano queste le parole che usava per descriversi. È stato un privilegio far parte di questi sentimenti che sapeva trasmettere con generosità.

Fratel Gino ha uno sguardo diverso su di noi, ora. La sua assenza è dolorosa, ma al contempo è alleviata da un profondo senso di gratitudine per averlo avuto nelle nostre vite, consapevoli di aver incontrato un missionario speciale e un uomo prezioso che ha realmente sperimentato la santità del quotidiano, di cui tutti siamo stati testimoni.



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