La mia missione in Bangladesh
Se non fosse per la sua chioma imbiancata un po' troppo velocemente, p. Enzo Valoti sembrerebbe lo stesso ragazzo incontrato a Cremona nel 1967. Lui già da un anno era nella nostra casa Apostolica, mentre io sbarcavo da Alzano assieme a un bel gruppo di ragazzi. Gli ho chiesto di regalarci un po' di pensieri e di esperienze della sua vita missionaria in Bangladesh, uno dei Paesi più complicati per l’attività svolta dai saveriani. Quando leggerete queste parole, p. Enzo sarà già rientrato in Bangladesh. La sua è stata, come sempre, una bella presenza per la nostra comunità. L'ha un po' ringiovanita, con la sua simpatia e leggerezza.
p. Fiorenzo Raffaini, sx
Mi trovo ad Alzano, di rientro dal Bangladesh, per qualche mese di riposo. Tanti mi chiedono che cosa voglia dire fare missione in questa nazione a grandissima maggioranza musulmana e con solo una piccola minoranza hindù, cristiana e buddhista. Da parroco a Satkhira, piccola cittadina vicino al confine occidentale con l’India, sono a contatto, prima di tutto, con la comunità cristiana. I suoi membri, però, provengono dall’ambiente “fuori casta” hindù e, spesso, rimangono segnati anche psicologicamente dalla realtà d’origine.
Sono i cosiddetti intoccabili, gli “impuri fin dalla nascita”, a causa della professione loro affidata dalla casta a cui appartengono. La divisione in caste segna il destino delle persone. Gli intoccabili vivono con la sporcizia e la morte che è impura per eccellenza. Come lavoro, devono pulire le campagne dalle carcasse degli animali morti. Sono persone emarginate, da evitare, nonostante il loro lavoro sia prezioso e nessuno (né hindù, né musulmani) voglia avere a che fare più di tanto con loro. Da 50-70 anni, alcuni hanno deciso di abbracciare il cristianesimo, soprattutto per cambiare la propria identità e acquistare dignità di fronte agli altri. Io, come tutti i missionari in Bangladesh, anche oggi li accolgo volentieri. Collaboro alla realizzazione delle loro attese, attraverso l’educazione scolastica che incomincia, per alcuni, da un orfanotrofio. A volte mi sono dovuto esporre perché potessero ottenere giustizia.
Mi sono interessato alla loro promozione integrale, anche con la creazione di nuove occasioni di lavoro offerte dal centro di ricamo per le donne, per i giovani e dai tanti laboratori di falegnameria, di barberia e di meccanica. Ho collaborato alla realizzazione delle loro attese e sono contento. Li scoraggio, invece, quando mi chiedono di aiutarli ad andare all’estero perché, per me, più che risolvere qualche loro problema ne crea molti altri. Li invito invece a credere nelle loro possibilità, nella terra e nella cultura nella quale sono nati.
Propongo ovviamente anche un cammino di fede cristiana. Accogliendoli nella chiesa mi sembra di offrire loro non solo dignità, ma anche una nuova relazione di figliolanza con Dio e la possibilità di vivere una fratellanza universale, che proprio la fede rende possibile.