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La Beatitudine del Perdono: A nome dell'Africa chiediamo perdono

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Dalla "porta del non ritorno" di Gorée

Forse la missione mi ha insegnato a guardare gli avvenimenti e le situazioni con una prospettiva diversa. Forse la missione mi ha contagiato di ottimismo… E allora mi diverto a cercare le sue tracce, anche quando le cose brutte sembrano prevalere; anche quando le cose più belle sembrano svuotarsi di significato.

L'isola degli schiavi

Ci sono fatti, immagini e ricorrenze che mi si fissano subito in testa. Ad esempio, il fatto che, negli ultimi dieci anni, per ben tre volte le telecamere hanno fatto approdare l’intera umanità sull’isola degli schiavi, a Gorée, in Senegal. 

Per ben tre volte la voce metallica degli speaker di turno ci ha indicato la soglia di una portadove milioni e milioni di schiavi africani sono stati contati uno ad uno, incatenati, imbarcati sui galeoni, ammucchiati in stive torride, disumane… Una porta, ritagliata dentro un muro rosso violento, aperta sull’immensità dell’Oceano Atlantico.

I sette minuti del Papa Woityla

Il primo ad essere attratto dall’isola degli schiavi, il primo che sulla soglia di quella porta ha spinto a riflettere l’umanità intera è stato Papa Woityla. Ci era andato dodici anni fa, il 22 febbraio 1992, durante uno dei suoi innumerevoli viaggi missionari, quasi per consacrare quell'isola come tempio dell’umanità, porta del cielo, mistero del cuore umano.

Ricordo ancora che il Papa aveva voluto sostare nel vano di quella porta, per sette minuti e mezzo, il braccio destro appoggiato sullo stipite; il capo chino; gli occhi chiusi. La bocca orante, aperta al mistero del dolore e della vergogna. Sette interminabili minuti, durante i quali l’unico segno di movimento, veniva da un lembo della mantellina bianca di quel pellegrino illustre, rivoltato sulla spalla. Mosso probabilmente dalla brezza dell’Oceano, che aveva inghiottito milioni di schiavi.

In ginocchio sulla porta

Mi aveva colpito il fatto che il Papa, divenuto famoso per aver domandato perdono cento volte, aveva denunciato l'enorme crimine del vergognoso commercio e reso "omaggio a tutte le vittime sconosciute", ma per una volta non aveva chiesto esplicitamente perdono. Aveva lasciato parlare la coscienza dell’umanità: quella coscienza che non può tacere neanche davanti ai lager, ai gulag, a tutti i colossei e alle fosse comuni, covate nell’angolo cattivo del cuore umano. 

Ma la foto del Papa, inginocchiato davanti a quel muro e appoggiato in silenzio orante a quella porta, la sto conservando in cuore più a lungo. Ogni volta che la guardo, anche di sfuggita, sento insorgere una voce dentro di me: “Non più schiavi! Non più uomini, donne, bambini, privati della libertà, strappati dalle loro radici!". Lo gridavo dentro me e lo grido ancora, perché nessuno mi toglie dalla testa che la schiavitù esiste ancora. Ha solo cambiato volto.

Presidenti e first lady

Sei anni fa, è sbarcato sull’isola degli schiavi anche B. Clinton. Anche lui ha sostato su quella soglia divenuta sacra. Clinton si presentò in giacca e cravatta, con la first lady Hillary in nero. Abiti e segni di rispetto, ai quali la religione laica tiene molto. 

La scorsa estate ci è passato anche G. W. Bush, impegnato a portare pace, salute e benessere al continente nero, durante un suo viaggio in cinque Stati africani. Anche Lui si è fatto riprendere dalle telecamere di tutto il mondo dentro il vano di quella porta. Non era in veste bianca, né vestiva di nero; si è fatto fotografare in maniche di camicia, con la first lady Laura in scarpe da tennis ai piedi e pantaloni azzurri…

Confesso che il loro abbigliamento, un po’ giù di tono, ha suscitato in me una certa perplessità. Mi sono detto: "Milioni di persone vendute per pochi soldi, come Cristo, meritano certamente il rispetto del presidente di una grande nazione”.

Gli africani chiedono perdono

Ero ancora irretito da queste perplessità, quando il titolo di una rivista ha attirato la mia attenzione: “Gli africani domandano perdono per la tratta degli schiavi”. Quasi per istinto ho cominciato a leggere l'articolo. Parlava dell’ambasciatore del Benin, un Paese africano che si affaccia sul Golfo di Guinea, che è andato a parlare ai discendenti degli antichi schiavi africani, riuniti nell’aula magna di una università americana.

Ha pronunciato testualmente queste parole:

"È molto facile dire che è stata tutta colpa dei bianchi. Ma la responsabilità è anche nostra. A nome del presidente del Benin e dell’Africa, io sono venuto a chiedervi scusa per quello che noi sappiamo essere successo: i nostri avi erano coinvolti in questo orribile, terribile commercio. Nella tratta dei neri, i bianchi erano solo quelli che comperavano la merce lungo la costa atlantica. Arabi erano, quasi sempre, i grossisti che vendevano e fratelli neri erano quelli che procuravano la materia prima attraverso guerre tribali, il cui scopo non era quello di conquistare terre, ma fare il più grande numero di prigionieri…".

I vescovi d'Africa chiedono perdono

Infine, il 5 ottobre scorso, sono stati i cardinali e vescovi dell'Africa, radunati a Dakar (Senegal) in Assemblea generale, a recarsi in pellegrinaggio alla "Casa degli schiavi", alla "Porta del non ritorno" di Gorée. In Assemblea hanno riflettuto sul tema delle conseguenze della tratta dei neri sulla storia e pastorale africana; hanno sentito il dovere di purificare la memoria per le complicità africane nella tratta dei neri e per il lungo silenzio della chiesa africana: "africani che hanno venduto i loro stessi fratelli".

In una celebrazione liturgica, i vescovi africani hanno chiesto perdono per questo "enorme crimine" della storia dell'umanità (così lo aveva definito già Pio II nel 1462). Hanno preso l'impegno, come chiesa d'Africa, di prendere in mano il destino del continente, come responsabili della sua storia.

La prima volta…

“Vi chiediamo scusa!” - è la prima volta che questa frase risuona pronunciata da africani - leader politici e vescovi cattolici - a proposito di un fatto così tragico della loro e della nostrastoria umana.
La parola “perdono” è parte importante della missione. E basta da sola a cambiare la storia dell’Africa; basta da sola a cambiare la nostra storia.

Il cambiamento sarà più realistico e garantito, quando anche i fratelli di fede islamica sapranno riconoscere la responsabilità dei loro antenati nella storia ignominiosa della tratta e della schiavitù nera; quando anch'essi saranno illuminati e troveranno l'umile coraggio di chiedere il perdono.



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