''Io non so come fui scelto''
Non potevo più andare avanti e marcai visita, io e altri cinque compagni. Ci fecero togliere la camicia e i medici ci videro passare davanti come ombre: eravamo sfiniti e non avevamo la forza nemmeno di lavarci la faccia. Mi fecero invalido e mi misero in una baracca a parte, in attesa di partire per il campo di concentramento di Mauthausen.
Dovetti star lì per due mesi ancora, in attesa di partire. Ma qui da mangiare si trovava: raccoglievamo tutte le scorze di patate, buttate nell’immondizia; le lavavamo bene e le cucinavamo nelle braci come frittelle. Erano tanto amare, ma quello era il cibo con cui ci riempivamo la pancia!
Il medico italiano e il cuoco compaesano
Infine, arrivò il giorno della partenza per Mauthausen, il concentramento grande. Da lì, per la mediazione del Papa, venivano rimpatriati gli invalidi di guerra. Ogni giovedì partiva per l’Italia un treno di prigionieri invalidi. Ma si dovevano fare altre visite di controllo. Andai per la visita e trovai un tenente medico italiano.
Ricordo, ero solo. Mi visita bene, ascolta, batte… e poi mi dice: “Tu sei perfettamente sano e non potrai essere rimpatriato”. Alle parole del medico mi misi a piangere. Lui era buono, gli feci compassione e mi disse: “Per me, io ti faccio invalido, però poi devi passare un’altra visita che è tanto difficile, con una commissione formata da tre medici austriaci e un maggiore; devi saperti regolare nel mangiare”.
Ricordo: lo salutai con tante grazie e gli baciai la mano.
Io non so come fui scelto: senza farmi visita, mi fecero invalido! Era il venerdì e perciò il giovedì seguente ero assegnato per venire rimpatriato in Italia. Che contentezza! Il cuciniere (un certo Rossetto di Caonada, a 6 chilometri dal mio paese Trevignano) mi disse: “Sei fortunato; se dovessi passare la visita ora non andresti più in Italia!”. Avevo fatto conoscenza con lui, e mi passava ogni giorno delle gavette piene di minestra con la farina di polenta. Io mi riempivo la pancia e fra me dicevo: “Quando arriverò a casa, andrò a mangiare con i maiali, per far vedere quanto bene sono trattati i nostri maiali!”.
Finalmente, parte il treno!
Formato il treno, ci avviamo per il rimpatrio, mentre la guerra continuava. Durante tutta la traversata della Svizzera, a ogni fermata quella buona gente ci dava confetti e caramelle...
A Chiasso, siamo trasferiti su un treno italiano di prima e seconda classe, ed entriamo in Italia. Che paradiso! Che gioia!
Troviamo le suore che con tanta carità ci confortavano. Per prima cosa ci portano un bicchiere di caffè-latte con un biscottino. Oh, come l’abbiamo gustato! Poco dopo, un altro bicchiere di minestra col riso, e dicevamo: “Che buono!”.
A ogni stazione italiana si faceva una breve fermata: c’erano treni pieni di nostri soldati che andavano al fronte. Loro ci credevano austriaci (eravamo ancora vestiti da austriaci, con panni vecchi e sporchi), ma quando ci sentivano parlare italiano, capivano che eravamo prigionieri di ritorno, e allora ci davano delle pagnotte di pane.
Ricordo che due siciliani si sono mangiati una pagnotta per uno, ma poco dopo sono morti crepati. Così poi, ogni volta che ci si fermava, c’erano le guardie e nessuno poteva darci niente.
Ma che gioia, che contentezza essere liberati dalla schiavitù!
I severi controlli e l’arrivo a casa
Arrivati a Roma, al Forte Tiburtina, siamo rimasti 40 giorni per passare la visita collegiale: secondo le malattie, c’erano reparti diversi. Io fui sul più fortunato. Intanto, scrivo subito a casa, dicendo che mi trovo a Roma per 40 giorni e poi sarei tornato a casa per la convalescenza. Appena i miei genitori ricevono la lettera, si domandano: “Come mai? Sarà senza una gamba, o avrà qualcosa di grave…!”.
Intanto siamo sotto severo controllo: visite, raggi, esami del sangue, dell’orina, dello sputo eccetera. Sui raggi riconoscono che ho avuto la pleurite secca da tutte e due le parti, ma che ora è quasi scomparsa. (Ecco, io pensavo a quelle notti nel mezzo dei Carpazi, che non potevo coricarmi per il dolore ai fianchi: avevo la pleurite, e senza cure sono guarito: riconosco che la Madonna mi ha fatto la grazia!).
Terminate tutte le visite e i controlli, dopo 40 giorni andai in convalescenza per tre mesi. La mia malattia di prigioniero rimpatriato era per deperimento organico, per il gran soffrire la fame.
Arrivai a casa: era notte. Suonava l’Ave Maria della sera. In paese era pieno di soldati; anche in casa di mio padre, quando sto per entrare nel cortile, vedo un soldato e lo chiamo. Era mio cugino Antonio che partiva per il fronte. Immaginate la scena: lui si mette a gridare: “È arrivato Duilio!”.
Non dico la consolazione nel trovarmi a casa, abbracciato dai miei genitori e fratelli!