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Ricorre il ventesimo anniversario (30 settembre 1995 - 2015) dell’assassinio di p. Ottorino Maule, p. Aldo Marchiol e della volontaria Catina Gubert, uccisi nella casa parrocchiale di Buyengero, in diocesi di Bururi, una parrocchia fondata e costruita proprio da p. Maule pochi anni prima. Il fatto aveva suscitato allora un’eco enorme nella coscienza della popolazione del luogo e anche - e molto profondo - nella coscienza nazionale italiana, che ha istintivamente visto in essi dei martiri della carità e della giustizia.

Quel giorno alle 7 di sera, all’ora del vespro e della cena, alcuni militari dell’esercito nazionale di stanza a Buyengero entrarono nell’abitazione dei missionari e uccisero a freddo il parroco, p. Ottorino Maule, che era il vero obiettivo di quella operazione, e con lui p. Aldo Marchiol e Catina Gubert, massacrati per non lasciare testimoni dell’efferata esecuzione.

L’uccisione fu scoperta solo la mattina seguente, 1° ottobre 1995, da suor Angelica che, non vedendo venire il missionario per la Messa domenicale delle sette, entrò in casa e si trovò davanti tre cadaveri riversi sul pavimento del refettorio in un bagno di sangue.

Il 30 settembre e ogni giorno

A vent’anni di distanza si potrebbe pensare che questo evento abbia perduto la sua forza evocatrice, ma non è così. Ogni anno a Gambellara, la parrocchia d’origine di p. Maule, i suoi concittadini ne ricordano il sacrificio; spesso i visitatori italiani che giungono in Burundi chiedono di salire a Buyengero a pregare sulla tomba dei tre martiri.

Ma ancora più significativo è il persistere del ricordo del loro sacrificio nella coscienza della gente del Buyengero, che ha ancora profonda riconoscenza per i tre missionari e la trasmette alla generazione che non ha conosciuto quella stagione, come il segno dell’amore per quei tre benefattori eliminati per vendetta nei confronti del loro parroco, reo di aver denunciato un’evidente ingiustizia commessa dai militari contro la povera gente del luogo.

Il persistere della memoria è ancora più sorprendente se si pensa che la cultura del popolo del Burundi non ha molta attenzione per i morti e per le tombe, che vengono volentieri dimenticate, perché gli spiriti dei defunti sono ritenuti portatori di disgrazie e di fastidi. In questo caso, invece, anche nei giorni feriali la tomba dei martiri è visitata dai fedeli che si recano in chiesa, tenuta bene e ornata di fiori. Ogni anno il 30 settembre la comunità locale insieme al vescovo di Bururi ricorda quella tragica giornata.

Gli abusi della guerra civile

La ragione o il pretesto di questa esecuzione vanno cercati in eventi dell’anno prima e nel clima avvelenato di quegli anni. Da due anni era cominciata la guerra civile, combattuta tra connazionali: l’esercito nazionale e quelli che il governo chiamava gli assaillants, quelli cioè che avevano preso le armi per vendicare l’assassinio del presidente eletto (21 ottobre 1993) e il tradimento della democrazia.

Fino a quel tempo, la guerra civile non aveva fatto gravi danni nel Buyengero; la popolazione civile viveva in discreta calma, grazie anche all’opera pacificatrice della missione cattolica. Tuttavia, la notte del 11 novembre 1994, dei militari di stanza a Buyengero uccisero due giovani che portavano delle mucche al mercato: erano figli di un militare tutsi, che lavorava alla prigione di Bururi; ma i militari per coprire il loro crimine l’attribuirono agli assaillants.

Qualche giorno dopo, incontrando presso Gasaro un gruppo di giovani che si recavano alla missione per una riunione di formazione convocata dal parroco, li uccisero affermando che erano quegli assaillants che avevano rubato le mucche. Padre Ottorino non credette alla versione e dopo aver indagato personalmente sulla vicenda, smascherò pubblicamente i militari, dichiarandoli responsabili del furto delle mucche e dell’assassinio dei giovani. Lo fece a occhi aperti, pur sapendo che con questa denuncia si stava condannando a morte.

“Ho deciso di restare!”

Gli amici e i confratelli e lo stesso vescovo di Bururi cercarono invano di convincere p. Ottorino a lasciare per qualche tempo la missione e prendere un periodo di vacanze in Italia. Ma egli, fino alla vigilia della sua morte, rifiutò questa proposta affermando che il suo posto era in parrocchia, che non avrebbe cambiato il suo programma di lavoro né le visite alle comunità e che, se doveva morire per la verità e la giustizia, non si sarebbe tirato indietro d’un passo: “Io ho deciso di restare!”.

Durante l’estate del 1995 avrebbe avuto un’occasione d’oro per restare qualche tempo fuori della missione, al riparo della vendetta dei militari. Infatti, era stato eletto rappresentante dei saveriani del Burundi al capitolo generale del 1995. In quell’occasione parlai personalmente con lui della storia di cui era protagonista.

Pur ammirando il suo coraggio, gli raccomandai di far attenzione e di non presumere delle sue forze, perché i militari non si sarebbero fermati davanti a nulla pur di fargli pagare la vergogna che egli aveva loro inflitto denunciando i loro misfatti. Gli suggerii anche di chiedere di essere assegnato a una comunità saveriana in Italia, dove era richiesto insistentemente per la formazione dei giovani missionari. La sua risposta fu netta: la stessa che aveva dato al vescovo e ai confratelli. La vendetta non si fece attendere.

Un silenzio impenetrabile…

Il funerale dei nostri tre martiri era stato un trionfo, pur nelle lacrime, alla presenza di una grande folla della regione circostante e delle autorità nazionali.

Ma quando si cominciò a indagare per incriminare gli assassini, l’indagine quasi subito si insabbiò. Alcuni testimoni che coraggiosamente avevano puntato il dito contro i militari della guarnigione locale (c’era chi li aveva visti dirigersi alla missione all’ora del massacro), dovettero lasciare il Burundi e rifugiarsi in Tanzania e sull’inchiesta scese un silenzio impenetrabile che perdura tutt’ora.



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