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Ho scelto la missione perché... / Sulle orme di uno zio speciale

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Don Francesco Commissari è uno dei 14 sacerdoti “fidei donum” della Romagna. Dal Brasile ha accolto l’invito di parlarci della sua esperienza missionaria. Attraverso i centri diocesani di Cesena, Faenza, Ferrara, Forlì, Imola, Ravenna e Rimini, ho rivolto lo stesso invito agli altri “fidei donum” romagnoli. Speriamo che seguano il buon esempio di don Francesco. Volentieri metteremo a loro disposizione questa nostra pagina.

  • p. Agostino Clementini, sx.

Il Signore ci chiama a essere missionari in ogni luogo: nei posti di lavoro, di studio, di impegno sociale e ricreativo, come consacrati o come laici. Negli ultimi decenni, è diventato più evidente per tutti che la vocazione battesimale ci accomuna e ci invita a vivere il vangelo e ad annunciare Gesù con la vita: con le parole e le opere.

Nella mia famiglia ho tre zii missionari: uno materno, lo scalabriniano p. Carlo Campiglia, e due paterni, p. Filippo del Pime e don Leo, "fidei donum" ucciso in Brasile nel giugno del 1998. La loro esperienza mi ha sempre affascinato, fin da bambino. Ma io ritenevo di essere chiamato a vivere la missione sacerdotale nella mia diocesi di Imola, nelle parrocchie dove il vescovo mi ha mandato. Forse non avevo lasciato molto spazio a Dio per parlarmi della missione “alle genti”.

Il progetto “chiese sorelle”

Vorrei raccontarvi un po’ di mio zio Leo. Nato nel 1942, si sentì chiamato al sacerdozio e alla missione, avendo come esempio il fratello maggiore, Filippo, partito per Hong Kong. Divenuto sacerdote nel 1967, egli partì per il Brasile due anni dopo, vivendo per sette anni nei pressi di Salvador Bahia. Condivideva la missione con altri sacerdoti e alcuni laici, in una zona molto povera.

Tornato in Italia nel 1976, parlando con gli amici del centro missionario diocesano, maturò l’idea di dar vita a un progetto chiamato “Chiese sorelle”. Nel 1980 mons. Dardani e dom Hummes, vescovi delle diocesi di Imola e di Santo André, fecero loro questa idea. Si concretizzava così il nuovo impulso missionario voluto dal Concilio Vaticano II, che chiedeva l’impegno missionario non solo agli ordini religiosi, ma anche alle chiese locali.

Vangelo e carità con i poveri

Il progetto portò tre sacerdoti, tra cui don Leo, e cinque suore della diocesi di Imola in una parrocchia della periferia di São Bernardo do Campo, grande città industriale vicina a São Paulo. Anche in questa nuova missione, don Leo si confrontò con la povertà, in particolare con quella degli abitanti delle favelas, famiglie giunte da lontano per cercare lavoro.

La priorità è sempre stata per lui la vita di comunione tra i membri dell’équipe missionaria e con le numerose comunità che, man mano, si formavano e crescevano. L’annuncio del vangelo - attraverso la liturgia e la catechesi - e l’azione caritativa, espressa anche nelle opere sociali, andavano di pari passo. L’amore per Gesù ha spinto don Leo a condividere la vita dei poveri, scegliendo di stare vicino a loro, nella povertà di una baracca della favela.

Dove la vita non ha valore

Nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1998, rientrando verso la sua baracca nella favela dopo una festa in parrocchia, don Leo è stato fermato da due persone e freddato con tre colpi di pistola.

Il motivo del suo assassinio non è mai stato chiarito. Per molti abitanti della favela, la vita è senza valore: ammazzare o essere ammazzati rientra nel dramma di un’esistenza priva di dignità e di identità. Persone senza scrupoli cercano di sbarcare il lunario, non attraverso lavori umili e poco redditizi (come fa la maggior parte dei favelados), ma diventando pericolosi delinquenti che si arricchiscono con i proventi di droga e prostituzione.

La violenza è uno degli strumenti a disposizione per farsi largo. Probabilmente, don Leo si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.



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