Chiamati alla missione: Gli affari miei e gli affari di Dio
I quattro amici che mi leggono, più per affetto che per profitto, hanno ormai capito che l’ottica di questa rubrica - in quest’anno dell’Eucaristia - è quella di una famiglia che va a Messa e, andando a Messa, cambia la vita, propria e del mondo.
Nella pagina di marzo abbiamo visto che la “liturgia della Parola” comincia in casa; e tanti ruscelli familiari di lettura-meditazione-preghiera diventano in chiesa il grande fiume dell’ascolto. Ma che significa ascolto? A volte riduciamo tutto allo “stare attenti”: il grande obiettivo è non distrarci, che i bambini non chiacchierino, i giovani non pensino ad altro, i vecchi non dormano. Forse, invece, il massimo è lasciarsi afferrare da una Parola e perdersi dietro ad essa...
Un esempio di tipo familiare può dirci cos’è l’ascolto meglio di tanti ragionamenti. Quando Abramo riceve il dono del figlio dalla moglie Sara, egli è pieno di gratitudine a Dio, è pieno di gioia. Ma tende a considerare il figlio come suo: fa progetti su di lui, come se fosse l’autore principale della sua vita. La bibbia non lo dice, ma è nella natura delle cose. Abramo è l’immagine di tutti noi: siamo tutti padri e madri un po’ possessivi. Allora Dio interviene e gli chiede indietro Isacco. “Prendi tuo figlio, il tuo unico che ami, e offrilo in olocausto su un monte che io ti indicherò”. Abramo obbedisce in silenzio, con gesti tragici, anche se semplici e quotidiani: “Si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio…” (Genesi 22,2-3).
La prova che Dio chiede ad Abramo non è una prova senza senso: Dio vuole liberare Isacco da Abramo; vuole che gli venga restituita la sua autonoma vocazione. E vuole allo stesso tempo liberare Abramo da se stesso: non pensi che Dio sia al suo servizio. Abramo, obbedendo, capisce. E allora Dio manda l’angelo a fermare la sua mano, già pronta al sacrificio del figlio. Il sacrificio è già avvenuto, quando Abramo ha rinunciato a Isacco e, quindi, a se stesso.
L’obbedienza ci fa capire. L’ascolto della Parola è un atto di comprensione che avviene nell’obbedienza. Entriamo in chiesa con i pensieri e i progetti del mondo e ne usciamo (dobbiamo uscirne!) con i pensieri e i progetti di Dio: su di noi, sui nostri cari, sui nostri soldi, su tutta la nostra vita; e sul mondo, sulle vicende del nostro tempo, sul presente e sul futuro. Non è più il giornale o il telegiornale a dettare l’agenda, ma la Parola che abbiamo ascoltato insieme. Non sono più i nostri affari o i nostri impegni e neanche i nostri affetti o le nostre “generosità” a segnare il corso delle nostre giornate, ma ciò a cui Dio ci chiama.
L’ascolto della Parola è uno sconvolgimento, una conversione. Non un cambiamento legato ai nostri propositi, alla nostra risoluzione di essere più buoni e più generosi. No. Ma il cambiamento operato dalla forza di una Parola da cui ci lasciamo prendere: una conversione sacramentale.
Il sacramento è uno solo: della Parola e del Pane. Non due, ma un’unica mensa. E nella misura in cui ascoltiamo, entriamo anche in comunione. Afferrati allo stesso tempo dal vangelo e da Colui che del vangelo è fonte e vertice: Cristo Signore. “Vivo io, ma non più io: è Cristo che vive in me” (Galati 2,20). Vive in me per la gloria del Padre e la gioia dei fratelli, vicini e lontani.
L’ascolto della Parola genera la comunione, la missione e la salvezza del mondo.