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Brescia: Sacerdoti e la speranza

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Segni di speranza nel mondo - La festa del Saverio a S. Cristo, Brescia

Per la festa del Saverio, una settantina di sacerdoti bresciani, guidati dal vescovo ausiliare mons. Francesco Beschi, si sono riuniti nella chiesa di San Cristo per una mattinata di riflessione sul tema della speranza. Accanto a loro, i missionari saveriani di Brescia e don Raffaele Donneschi, direttore del centro missionario diocesano.

Missione di fraternità

Uno degli ospiti della giornata era p. Silvio Turazzi, saveriano romagnolo e apprezzato collaboratore del nostro giornale. È stato missionario in Congo, dove torna periodicamente, nonostante da molti anni viva su una sedia a rotelle, a causa di un incidente stradale. Padre Silvio ha raccontato cosa significhi "speranza" in Africa.

"Oggi sentiamo il bisogno di essere una cosa sola con il popolo in mezzo a cui viviamo, legarci alla nostra gente, partecipare il più possibile ai problemi della vita di tutti i giorni". Per p. Silvio, la chiesa è presenza di quel risorto che è in mezzo a noi e ci provoca a non pensare alla salvezza come a un evento del passato, ma a qualcosa di cui siamo partecipi oggi.

"Da quando sono arrivato in Africa nel 1975, volevo essere un fratello in mezzo alla gente. Era una missione di fraternità piuttosto che di attività, sull’esempio delle comunità di base del Brasile". La missione, quindi, pentava anche uno scambio: da una parte il missionario accanto alla gente; dall’altra la gente aiuta il missionario a capire la storia di quel popolo e la sua cultura.

Dalla morte, la Parola di vita

L’uomo che p. Turazzi ha incontrato in Africa è aperto a tanti segni della vita. Durante la guerra in Congo, è nato spontaneo il bisogno di creare momenti di confronto tra le varie comunità cristiane della città. Era un tentativo di mettere insieme tribù perse per la pace: "Ci tenevano uniti il vangelo di Gesù e la preghiera. Solo così abbiamo evitato la guerra civile a Goma. Non ero solo. Attorno alla morte, usciva speranza".

Il popolo congolese ha costruito un legame sulle macerie, e il vangelo di Gesù ha contribuito tanto a questa ricostruzione. In Congo la chiesa ha sempre tenuto alta la testa, anche quando per farlo ha pagato con il martirio. Il riferimento è a mons. Munzirwha, ma anche a tante altre persone più anonime, che hanno pagato con la vita la loro decisione di vivere insieme.

"La vera speranza è solo il cuore di Dio che vuole passare nella nostra povertà. Credo nella chiesa, perchè credo in Cristo che si rende presente. E noi più siamo deboli e scalzi, più diamo la possibilità a Dio di dire la sua Parola, una Parola che sgorga spesso da volti stanchi e malati. È una parola di speranza".

Speranza dietro le sbarre

È intervenuto anche don Adriano Santus, cappellano del carcere di Brescia. Don Adriano ha raccontato la sua esperienza in questa realtà, luogo di sofferenza morale e ancora oggetto di pregiudizi culturali. "Il segno di speranza più bello è la capacità di perdonare. Quando un carcerato si sente perdonato, si sente ancora stimato e amato, al di là delle proprie colpe". La presenza nelle carceri di volontari e catechisti rappresenta una volontà d’accoglienza e di rispetto. È un segno di speranza.

A tutti i presenti, poi, ha fatto molto piacere incontrare Federica Nassini, nipote di mons. Masserdotti, vescovo di Balsas, in Brasile, scomparso in un incidente stradale nel settembre scorso. Federica ha detto che il ricordo dello zio è ancora troppo vivo per parlarne in pubblico, e ha presentato un video che racconta la vita di dom Franco, anche attraverso brani delle sue lettere.

Mons. Beschi ha concluso dicendo: "Non possiamo essere solo spettatori del mondo che cambia; non dobbiamo solo adeguarci. L’esperienza cristiana è in grado di trasformare il mondo e dargli un futuro di speranza".



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