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Bepi De Cillia: una vita in Burundi

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A lungo andare, la missione gli ha presentato il conto. Da un lato, le strade sconnesse del Burundi, che hanno minato le vertebre della sua schiena; dall’altro, gli strapazzi e le tensioni di chi passa la vita a fare del bene ai poveri nelle periferie nel mondo africano.

Il passaggio del testimone

Appena tornato in Burundi, p. Bepi De Cillia, saveriano friulano, ha trovato grosse sorprese: il fiume gonfiato da piogge selvagge si era portato via un’intera collina e, insieme, i tubi dell’acquedotto del popoloso villaggio di Tonga. Così, ancora prima di aprire la valigia, ha dovuto correre a ricostruire l’acquedotto.

Quando i bambini di Tonga torneranno a lavarsi il viso con l’acqua pulita, p. Bepi consegnerà la missione nelle mani di giovani missionari messicani, africani e indonesiani.

È il gesto di chi vuole dare continuità alla missione, quando le forze vengono meno.

Padre Bepi aveva già visto altri missionari fare la stessa cosa; ma le circostanze erano diverse. Per il Burundi era maturato il tempo dell’indipendenza politica. Nel 1964 i missionari belgi, olandesi e tedeschi consegnavano la missione ai missionari italiani. A quel tempo il Burundi assomigliava a un angolo di paradiso: i missionari iniziavano con il catechismo, insegnavano a leggere e scrivere, si mettevano a curare le piaghe. E quando la comunità raggiungeva un certo numero di battezzati, si celebrava la Messa, cantando con i tamburi.

Missione fuori dalle chiese

Per otto anni, i missionari italiani continuarono a fare missione nelle chiese. Inaspettatamente, senza alcuna giustificazione, saltò fuori l’odio tribale. Bastarono quindici giorni per far perdere la testa a tutti. I missionari riuscirono a rifugiare nelle chiese folle di mamme e bambini, per salvarli dall’eccidio.

In tutto quel finimondo, p. Bepi decise di recarsi dal vescovo per fargli presente che il Burundi era, ormai, un paese tagliato in due: da una parte i volti ovali dei watussi, dall’altra i volti tondi degli hutu. E poi, la guerra, che non era solo uno scontro armato. La guerra creava fame, moltiplicava gli orfani. Il vescovo lo autorizzò a far uscire la missione di chiesa e a viverla anche nell’impegno sociale.

Recentemente, p. Bepi ha scritto anche a noi di Tavernerio per assicurarci che quando effettuerà il passaggio della missione, incoraggerà i nuovi a seguire l’autorizzazione di quel vescovo.

Nella sua lettera padre Bepi ha raccontato le quattro sollecitazioni che, negli anni, hanno contribuito a maturare la sua coscienza missionaria.

Il vangelo è aiutare gli ultimi

“L’ambasciatore del Belgio mi disse che il suo paese aveva un progetto di due anni per distribuire tremila tonnellate di fagioli ai rifugiati tra le montagne. Mi chiese di portarli personalmente. Quell’esperienza valse più di una tesi laurea sulla giustizia.

La seconda testimonianza me la offrì un giovane musulmano quando i militari vennero ad arrestarmi, perché portavo aiuti ai disperati. Rimasi sotto interrogatorio tutto il giorno. La sera mi sussurrò: «Padre, nella moschea abbiamo pregato per te tutto il giorno. Allah non permetterà ai militari di chiuderti in prigione». E così avvenne.

La terza testimonianza è quella del cardinal Tonini, il quale giunse a Kamenge nei giorni in cui le strade erano disseminate di cadaveri. «Eminenza - gli dissi - ora non restano che le nonne a prendersi cura dei nipoti, orfani dei genitori». Immaginate la mia commozione quando il cardinale mi fece pervenire due miliardi e mezzo di vecchie lire, accompagnati da una dedica: “Gesù lo vuole!”.

L’ultima testimonianza di solidarietà è quella di centinaia di laici italiani e di associazioni che mi hanno aiutato a far arrivare l’acqua potabile in una regione grande come mezzo Friuli e a costruire chiese”.

Padre Bepi conclude così:

“Credo sia giusto ora passare la mano. Ma, soprattutto, credo che Gesù e lo Spirito Santo apriranno ancora nuove strade della missione”.



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