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28 gennaio: Giornata per gli ammalati di Lebbra

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A che punto siamo con la malattia?

Un tempo il termine lebbra incuteva terrore. Oggi non è più così: la lebbra è cambiata, non è brutta come lo era, ad esempio, ai tempi di Gesù. Nessuna malattia è stata circondata da tanti misteri e leggende come questa. La lebra ha avuto spesso, in taluni Paesi, il significato di verdetto. Era considerata come la conseguenza di una condotta peccaminosa, punizione per tabù violati. Il lebbroso veniva isolato, scacciato dall’accampamento, gli si negava ogni diritto.

Oggi le cose sono cambiate, grazie agli studi ed ai progressi della medicina, come alle Campagne promosse da vari enti. Colui che nel mondo occidentale ha maggiormente contribuito a mutare l’atteggiamento verso i malati di lebbra è stato Raoul Follereau, un giornalista e commediografo francese, morto nel 1977, che ad un certo momento della sua vita si è dedicato completamente ai dimenticati della terra. Follereau scelse l’ultima domenica di gennaio per la celebrazione della Giornata Mondiale dei malati di lebbra perché, prima della riforma liturgica voluta dal Concilio, nella Messa di quella domenica, venivano letti alcuni brani dell’Antico e Nuovo Testamento che parlano della guarigione dei lebbrosi.

La lebbra è una malattia infettiva, contagiosa, ad evoluzione cronica, causata dalla moltiplicazione nell’organismo umano di un bacillo simile a quello della tubercolosi. Non è una malattia che uccide, ma può causare deformazione degli arti, della pelle, invalidità; degenerazione delle parti molli del corpo: il naso, le orecchie, le dita. Condizioni di disagio favoriscono la sua propagazione: abitazioni malsane, sottoalimentazione, mancanza di igiene. La malattia si manifesta con chiazze, noduli e perdita della sensibilità agli arti.

Fu solo nel 1873, in Norvegia, che il dott.Armeuer Hansen scoprì l’origine della malattia: il bacillo che nei testi scientifici prese da lui il nome, Bacillo di Hansen, appunto. Da allora tanta strada è stata fatta: oggi la lebbra è curabile. Con una diagnosi precoce e l’impiego di farmaci si evitano la diffusione del contagio e le peggiori menomazioni. Il malato può vivere tranquillamente in famiglia, adottando alcune semplici precauzioni; deve assoggettarsi a terapie e a brevi soste in ospedale e spesso, nell’arco di un periodo che va dai dieci mesi ai tre anni, può addirittura guarire. Ecco perché uno degli scopi essenziali della lotta contro la lebbra è scoprire al più presto i sintomi della malattia.

Ho pregato con loro

Ricordo anni fa (quando ero a Pekanbaru, una città sorta al centro dell’isola di Sumatra in Indonesia) i miei viaggi verso Bagansi Api Api. Allora era poco più di un villaggio: 40 mila abitanti, quasi tutti di razza cinese, pescatori, accaniti giocatori d’azzardo e fumatori d’oppio. Sorto sulla costa orientale di Sumatra, vi si accedeva solo via mare, perché non c’erano strade, chiuso alle spalle dalla foresta vergine e da paludi di sabbie mobili. Lo raggiungevo ogni un paio di mesi, dopo aver attraversato la foresta per 150 chilometri e con un viaggio in barca d’una decina di ore. C’era un bel gruppo di cristiani che accoglieva il padre con molto calore.

Ma quello che mi attirava a Bangasi Api Api era il lebbrosario. Sorgeva in un luogo isolato, ad un paio di chilometri dalla cittadina, protetto da alte piante di noci di cocco. Quando il padre spuntava dalla stradina, arrancando in bicicletta sul sentiero di fango, gli ospiti del lebbrosario accorrevano sullo spiazzo gridando il loro saluto: "Tabé! Tabé!". Poi facevano ala al missionario che si dirigeva verso la chiesetta: tutta in legno, con il pavimento lucidato a cera. E prendevano posto nei banchi: gli uomini a destra, le donne a sinistra, secondo l’uso cinese di allora. Dopo le confessioni, il padre cominciava la Messa. Erano una quarantina, malati da anni, con il volto e gli arti devastati dalla malattia.

A distanza di anni, ricordo benissimo la prima volta che lessi il Vangelo davanti a loro. Vedevo quegli occhi attenti, specchio di anime assetate di Dio e della sua parola. Ma io facevo fatica a seguire il filo della predica. Un conto è osservare la foto d’un gruppo di lebbrosi o vedere lo scorrere delle immagini d’un servizio alla televisione, un altro è vederli seduti e attenti davanti a te, mentre ti sforzi di spiegare il Vangelo.

Non è facile ripetere le parole di Gesù "Beati voi che soffrite", quando pensi che tu, sano e robusto, fra un paio di giorni te ne tornerai a casa, e loro rimarranno là, soli, sul Calvario, con il peso della loro carne crocifissa. Mentre celebravo quella prima Messa tra loro, notai subito una cosa strana. Il coro degli uomini e delle donne si alternava nel canto; ma il coro delle voci delle donne si esprimeva con un timbro inusuale, rauco, non limpido come è tipico delle voci femminili.

Seppi dopo che la lebbra intacca anche le corde vocali. Dopo la Messa il lebbroso che fungeva da sagrestano, riponendo i paramenti, spesso mi ripeteva: "Padre, qui c’è molta sofferenza". Ma lo diceva in un modo così tranquillo, così dolce, con il viso che esprimeva un’intima, cristiana rassegnazione, che mi turbava ogni volta .

Una pagina di Vangelo vivo

Ricordo con profonda commozione il momento della comunione. Il gruppo avanzava verso l’altare a due a due, come si è soliti fare anche nelle nostre chiese italiane. Sempre chiudevano la fila due uomini anziani. Avanzavano reggendosi l’un l’altro: uno era cieco, e si lasciava guidare dal suo compagno; il secondo aveva perso le dita dei piedi, e veniva avanti zoppicando sui suoi moncherini appoggiandosi a sua volta al braccio dell’amico. Si accostavano all’altare, così, per ricevere insieme l’Eucarestia. Ed io porgevo loro l’Ostia consacrata, che diveniva forza nel loro cammino quotidiano. E dicevo, dentro di me: "Questa è una pagina di Vangelo vivo! È la parola di Gesù che si fa realtà, che ci ripete: camminate insieme, credete alla mia parola, mangiate il mio Corpo che vi accompagna verso la resurrezione della carne e il Regno di Dio".

Abbiamo superato da poco il Secondo Millennio, chiuso all’insegna della paura, che nasce da catastrofi e dalla minaccia di nuove violenze. Ma abbiamo aperto il Terzo con una grande speranza nel cuore: l’Anno del Giubileo appena concluso può costituire una spinta formidabile perché gli occhi si aprano e scorgano la presenza di Dio tra noi e il suo amore che ci accompagna. Il nostro cuore si apre ai fratelli.La Giornata per i lebbrosi che celebreremo l’ultima domenica di questo mese, il 28, ci ricorda che la lebbra si può vincere.

Contrariamente a quanto molti pensano, il morbo di Hansen è oggi una malattia curabile: con il dapsone, un farmaco assai efficace e prodotto a basso prezzo. Con l’assistenza e la solidarietà verso i malati si può inoltre favorire la loro progressiva riabilitazione fisica, accompagnandone e stimolandone il reinserimento sociale. La celebrazione, il 28 prossimo, della Giornata Mondiale dei Malati di lebbra ci stimola alla solidarietà e all’impegno. Nel Paginone di questo giornale possiamo trovare spunti di riflessione.

La sofferenza di Gesù e quella di questi nostri fratelli e sorelle crocifissi con Lui ci indicano la strada dell’amore e della redenzione.

p. Ettore Fasolini, sx.


IGNORANZA E TIMORI

Il loro delitto? Sono malati, malati di una malattia che oggi è conosciuta come poco contagiosa e perfettamente guaribile. Ma questa malattia si chiama "lebbra". Essa causa vergogna e paura.

Grazie alla scienza la malattia scompare. Ma la vergogna persiste.

E la paura, la vera lebbra, continua la sua opera di termite. Per scoprire, curare, salvare i 12 milioni di malati ancora prigionieri della nostra assurda paura, per guarire i malati di questo insensato terrore, ho dato inizio nel 1954 alla Giornata Mondiale dei lebbrosi che si celebra ogni anno l’ultima domenica di gennaio.

Vuoi aiutarmi?

  • Raoul Follereau.


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