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Conobbi p. Palmiro Cima (salito al cielo il 13 aprile scorso a Kinshasa, in Congo RD) nel dicembre del 1983, presso la casa dei missionari saveriani di Cremona, in via Bonomelli 81. Agli inizi degli anni ottanta, grazie all’animazione missionaria dei compianti padri Bruno Boschetti e Giovanni Abbiati, si era creato a Cremona un gruppo giovanile missionario molto attivo e impegnato, sia livello diocesano che parrocchiale.

Anch’io, dalla terza superiore, facevo parte di quel gruppo e tutte le prime domeniche del mese ci si ritrovava nella casa di Cremona per un momento di formazione, di preghiera con la celebrazione della Santa Messa, di ascolto delle testimonianze missionarie e di organizzazione delle attività sul territorio.
Durante le vacanze scolastiche estive, venivano organizzati campi di lavoro, a rotazione, nelle varie zone della Diocesi. Qualcuno, più coraggioso, partiva per un’esperienza missionaria in Africa. Durante le vacanze natalizie e pasquali, la proposta era quella di un ritiro. In particolare, durante il periodo natalizio era possibile organizzare una “tre giorni” di condivisione con momenti di riflessione sulla Parola, arricchiti dalla testimonianza dei saveriani cremonesi in vacanza che si univano volentieri al nostro gruppo.

Fu proprio nella “tre giorni” del dicembre 1983 che p. Cima condivise la nostra esperienza conviviale. Ero una giovane liceale e rimasi colpita dal suo entusiasmo e dalla sua passione per la missione africana. Il “suo” Congo arricchiva ogni narrazione, in cui sottolineava quale privilegio avessimo noi giovani italiani a vivere nel “Primo Mondo”. Erano parole che facevano riflettere e che non potevano lasciarci indifferenti. A volte, mentre parlava, dimostrava una tale empatia con il “suo popolo” da farci commuovere. Era ancora giovane e molto attivo e non si risparmiava neppure nell’animazione del nostro gruppo: ci spingeva a essere più coesi e collaborativi, a fidarci gli uni degli altri e a condividere appieno, in modo gioioso, la nostra comune esperienza nel gruppo missionario.

Per questo, durante la “tre giorni”, faceva il possibile perché ci ritagliassimo dei momenti di svago in comune e un pomeriggio, subito dopo pranzo, ci chiese di seguirlo. S’incamminò rapido per via Bonomelli, direzione Duomo e, con noi al seguito, salì spedito fino in “cima” al Torrazzo! Non male come digestivo… dopotutto “Nomen omen”.
Quello che più mi è rimasto impresso della sua personalità, oltre al grande amore per la terra africana, è stato l’entusiasmo di voler condividere con noi, giovani privilegiati, la sua passione per la missione, consapevole di quanto poveri saremmo rimasti se non l’avesse fatto.

Padre Cima era così: non poteva passare inosservato e sono certa che abbia lasciato un’impronta missionaria indelebile in chiunque l’abbia conosciuto.



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