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P. Claudio (Nabo) Codenotti, di Gussago, è missionario in Giappone. È passato a trovarci durante le sue vacanze e l’abbiamo intervistato.

Da quanto ti trovi nel Paese del Sol Levante?
Da 27 anni complessivamente. In mezzo, c’è stata una pausa di sette anni e mezzo trascorsi come animatore missionario a Desio (MB). Sono tornato per vacanza e per partecipare alla Cosuma (Consiglio dei Superiori maggiori) a Tavernerio. Lo scorso anno ho festeggiato 40 anni di ordinazione presbiterale, avrei dovuto essere qui, ma la pandemia ha rinviato tutto.

Che compiti hai?
Sono Superiore dei saveriani in Giappone (secondo mandato), ma posso già a guardare al futuro in modo diverso, perché a novembre celebriamo il Capitolo e lascerò l’incarico.

Un bilancio?
Ho conosciuto meglio le realtà missionarie in tutti i suoi aspetti e sfumature. È stata un’occasione per stare vicino in modo quasi paterno ai confratelli, perché vedi sforzi e fatiche. È un’occasione anche per interagire con i superiori di altre congregazioni, con i vescovi e quindi ascoltare le preoccupazioni di una Chiesa che sembra non crescere, ma invecchiare ed è poco attrattiva per i giovani. Questo non per mancanza di buona volontà, ma perché la vita li porta un po’ a disperdersi.

Quali le novità?
Il fattore nuovo è l’immigrazione che porta tante energie. Si parla di famiglie giovani con ragazzi, per i quali è necessario il giusto tempo d’integrazione e uno specifico lavoro pastorale (che parte dall’inserimento e da risoluzione di problemi concreti).

Da dove si emigra?
Dal Sudest asiatico (Pakistan, Bangladesh), dall’Indonesia, dall’America Latina (Perù, Brasile, Colombia). Di origine giapponese era il vecchio presidente peruviano Fujimori. Ci sono sacerdoti e anche missionari incaricati di seguire i diversi gruppi etnici (Celebrazioni in lingua e pastorale).

I saveriani cosa fanno in Giappone?   
Accanto alla formazione (scuole), sempre più spesso capita di dover aiutare le parrocchie che sono senza preti, magari provando a creare parrocchie missionarie. Mons. Conforti diceva “perché sia da tutti conosciuto” ed è la prima fase, “e amato…” cioè seguito, considerato importante per la vita di ciascuno. I modi sono numerosi: scuola, dialogo interreligioso, vita sociale.

C’è ancora bisogno di far conoscere Gesù in Giappone?
I giapponesi hanno un’idea del mondo occidentalizzato, sanno chi sono i missionari, ma forse non i particolari della loro presenza costante, paziente, di semina. La cultura secolare giapponese sta diventando sconosciuta alle nuove generazioni. Però, c’è uno stile di vita che ha un substrato diverso dal nostro. Dico sempre che se in Occidente c’è prima l’individuo, in Oriente prima viene la comunità, se in Occidente c’è il mito della libertà, in Giappone prevale il contesto dell’armonia sociale, ovvero che tutti vivano nella concordia. I giapponesi crescono con un alto senso di civiltà fin da bambini: puliscono aule e corridoi delle scuole a turno. E questo senso di civiltà da adulti si sposta anche al quartiere. Non si tratta di volontariato. Il bene comune è servizio e nel servizio si trova la gentilezza. Sono caratteristiche innate.

Grazie a questo senso di civiltà c’è meno violenza?
Sicuramente. Poi esistono vari disagi, tra cui quello giovanile, perché spesso sembra sia una società che ha perso l’anima, che insiste sul lavoro, il successo, il profitto. Però, se entri nelle famiglie, soprattutto in ambiente rurale, trovi contenuti di ospitalità e accoglienza eccezionali. Esiste un rispetto per la diversità (anche) religiosa invidiabile.

Vale anche per l’emigrazione?
Chi arriva da fuori rischia di disturbare l’armonia e quindi può subire un’accoglienza parziale o può esso stesso non trovarsi bene. La Chiesa, in questo senso, sta facendo sforzi enormi per il rispetto e per l’integrazione. P. Giovanni D’Elia è un esempio a Osaka. 

I giapponesi sono credenti?
Sono Buddhisti, ma hanno nel sangue lo Shintoismo (culto dei morti, tradizioni, il gruppo, il proprio paese ciascuno con la propria divinità). Ma è una nazione avviata verso l’indifferenza religiosa e la mancanza di conoscenza.

Ci sono vocazioni saveriane?
Fin dall’inizio della nostra presenza in Giappone, abbiamo dato la precedenza alle vocazioni per il clero locale.

Quanti sono i saveriani in Giappone?
Siamo in 28. Eravamo in 34. Due sono stati richiamati in Italia e quattro sono mancati nel giro di due anni (p. Audisio, p. Marchetto, p. Bellini, p. Graziano Carlesso). Dei 28, nove sono sopra gli ottant’anni. In futuro, penso che non riusciremo a lavorare con oltre 15-20 missionari attivi. Tutto questo in una nazione che conta oltre 20mila centenari e con un’alta aspettativa di vita.

Il Covid…
Non ha colpito come in Italia. Gli effetti sono stati limitati.

E le Olimpiadi?
I giapponesi hanno seguito con un interesse particolare soprattutto le Paralimpiadi. Non c’erano timori per un aumento dei contagi. Con la loro efficienza hanno creato “bolle” impenetrabili. 

Dalla Cosuma cosa ti aspetti?
Spero che arrivi qualcosa di più deciso riguardo il Carisma saveriano. L’anno scorso abbiamo celebrato i 70 anni di presenza in Giappone, questo è stato l’anno Giubilare per i 100 anni della Lettera Testamento del Fondatore. Arriviamo, insomma, da tanti mesi di confronto sull’Ad gentes in cui noi siamo immersi (99% e oltre di non cristiani).

E per il Giappone?
Abbiamo un rapporto stretto con le diocesi (quasi un contratto). Dobbiamo essere piccoli semi. Loro stesse ci chiedono di essere missionari per le parrocchie. Anche la collaborazione con i laici è fondamentale. Noi non abbiamo il Laicato Saveriano, ma cerchie di amici che raggiungiamo anche attraverso un giornalino che parla del Saverio (che conoscono bene), ma anche di mons. Conforti e del nostro lavoro. Abbiamo riscontri positivi, quasi inaspettati, da chi lo riceve e lo legge.

Tu e Brescia…
Ricordi indelebili. Nove anni qui, di cui 5 come animatore missionario. Ora, credo che per San Cristo si tratti solo di trovare nuove modalità di presenza e collaborazioni.

Come hai trovato Gussago e l’Italia?
Sono innamorato del mio paese. Il missionario ha sempre bisogno di tornare alle radici, perché da lì si rafforza e alimenta. In queste settimane ho incontrato tante persone. Ho riscontrato un grande bisogno di ascolto da parte della gente. Sono nato a 20 metri dal campanile di Gussago, ma io in chiesa passavo dalle porte laterali per andare più velocemente possibile in oratorio senza fare il giro della piazza. Finché qualcuno mi ha chiamato, come don Camillo con il Crocifisso. Allora il mio curato era don Enrico Cotelli, che è stato missionario in Germania e che nel 1977 è stato ucciso a Policoro (MT), in seguito a una rapina. Si trovava là in visita alle famiglie degli emigrati italiani in Germania, impossibilitati a scendere a casa. Lui mi ha dato l’ispirazione per entrare dai saveriani.



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