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PERCHÉ RESTO QUI, ANCHE SE BOKO HARAM POTREBBE UCCIDERMI O RAPIRMI?

Et iterum dico, gaudete! “Lo dico e lo ripeto: siate lieti nel Signore” (Fil 4,4). Mi piace riportare questo inciso di san Paolo nella lettera ai cristiani di Filippi, lettera della prigionia, scritta in un momento durissimo della vita dell’Apostolo, quando ormai presagiva la prossimità del martirio. La sua è una reazione di fede, dove è assente ogni segno di disperazione, ogni timore eccessivo sulle sorti della sua storia personale, della Chiesa, del Mondo.

È la reazione della gioia cristiana, che viene dall’alto, Gerusalemme celeste che scende sulla terra, discende sulla logica terrena, per elevarla, per proiettarla nel cielo.

Siamo nei momenti in cui, da queste parti, imperversa Boko Haram, questa setta jihadista che si è installata nel Sahel della Nigeria del nord, nello Stato Federale del Bornou: dei diavoli efferati venuti dal regno delle tenebre, che mietono vittime tra le popolazioni cristiane e animiste che abitano le nostre zone, e che colpiscono anche molti musulmani che – in totale disaccordo con quelle prospettive criminali – finiscono per essere da loro considerati dei nemici ancora peggiori per rapporto ai “kirdi” (i non-musulmani) perché considerati traditori della causa che loro credono essere quella “del vero Islam”.

Boko Haram è una galassia nebulosa, di scontenti e di frustrati, di estremisti e di violenti: colpisce tutto e tutti. Fanno incursioni in Nigeria, ma spesso sconfinano in nord-Camerun, e anche in Ciad. Hanno creato una situazione oggettivamente tesa e difficile, un clima di paura, di sfiducia nelle istituzioni, che non arrivano ad avere ragione della loro forza brutale. Boko Haram colpisce i non-cristiani e i cristiani, cattolici e protestanti, senza troppe distinzioni; sogna un grande Stato Islamico retto dalla Sharia, e non vuole cristiani sul suo territorio. Boko Haram colpisce i bianchi, rapisce i missionari, soprattutto stranieri (anche se non in maniera esclusiva). “Boko Haram” vuol dire “l’Occidente è peccato”, cioè l’Occidente, il mondo dei bianchi, è all’origine della perversione dei costumi, della crisi della vera fede islamica: è tutto un programma.

In mezzo ci siamo anche noi, il personale apostolico della Missione Cattolica: oggetto di disprezzo e di attenzioni finanziarie criminali: catturarci vuol dire ottenere riscatti, per poter finanziare la loro guerra santa. L’insicurezza regna, e anche la paura: in situazioni come queste si manifestano le profonde motivazioni dei cuori, le inconsistenze, le sfide.

La persecuzione è una spada che penetra nell’anima, che obbliga a ridire la propria scelta di fede.

Poco tempo fa è stata nominata la nuova ambasciatrice d’Italia in Camerun, una veterana della diplomazia, ma alla sua prima nomina come ambasciatrice: uno dei suoi primi atti pubblici è stato di invitare caldamente tutti gli italiani (diciamo meglio: il personale della Missione Cattolica, dato che nessun altro italiano è rimasto in nord-Camerun oltre a preti, suore e laici in servizio ecclesiale) a lasciare l’Estremo-Nord a causa dell’imminente pericolo di attacchi di Boko Haram. Preoccupazione giusta, da parte delle nostre autorità consolari, ineccepibile: sono preoccupati della nostra incolumità, e parlano di conseguenza. Ma l’autorità civile purtroppo fatica a comprendere le esigenze della fede, e, pur senza volerlo, finisce per ingenerare un clima di tensione, che può sfociare in un “fuggi-fuggi” generale, che potrebbe portare al conseguente abbandono delle responsabilità pastorali, della guida delle comunità cristiane, lasciate allo sbaraglio; “erano come gregge senza pastore” (cfr. Nm 27,17). Giustamente i vescovi locali (le due diocesi di Maroua e Yagoua, direttamente colpite dalle incursioni di Boko Haram: la diocesi di Yagoua è dove io risiedo, nella missione di Da’na; e quella di Maroua è quella dove insegno teologia, al Seminario Maggiore del nord-Camerun) hanno scritto invitando a non cedere alla tentazione di partire, perché questo è esattamente ciò che desidera Boko Haram: fare il vuoto nelle comunità cristiane, per sbaragliare la Chiesa.

Anche il Nunzio apostolico, rappresentante di papa Francesco in Camerun, è stato chiaro: attenzione al disfattismo, non cedere alla logica dell’abbandono delle comunità cristiane. Le ragioni di sicurezza personale dei singoli non devono prevalere sulle ragioni della fede. Bisogna riconoscere che, in questo frangente storico, i più alti pastori della Chiesa hanno avuto un comportamento encomiabile: hanno avuto solo reazioni sante. Benedictus qui venit in nomine Domini! Certo, colui che non se la sente di restare è meglio che se ne vada, perché non si può vivere in permanenza in un clima di paura: ma chi se la sente deve restare, perché i pastori non possono abbandonare il gregge: “Guai al pastore stolto che abbandona il gregge” (Zc 11,17). Gesù lo ha detto senza mezzi termini: il pastore non è il mercenario. “Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore” (Gv 10,12-13).

E quindi, i pastori della Chiesa non devono fuggire; devono certo essere prudenti, certo ponderati, certo non devono esporsi inutilmente: ma non è bene che fuggano.

Che dovremmo dire allora? Dobbiamo cercare il martirio? Certamente no. Io conosco bene, insegnando da anni patrologia, tutta quella letteratura di esortazione al martirio, che già da Tertulliano, san Cipriano, passando per Origene, sant’Atanasio, fino ad arrivare a san Giovanni Crisostomo, esalta il martirio come testimonianza radicale di fede e d’amore per Gesù: apprezzo quei testi, ne vedo il grande carisma profetico. Ma personalmente sono stato sempre dell’idea che “il paradiso può attendere” (lo ricordate quel bel film di una trentina d’anni fa?): al martirio si deve dare una disponibilità interiore fondamentale, ma non è una realtà da cercare. C’è un dovere biblico prioritario che impone di salvaguardare la propria vita, di non metterla in pericolo: mai la Chiesa ha approvato forme paranoiche di suicidio martiriale. Vi si è sempre opposta con tutte le forze. Tuttavia, il martirio non può essere escluso dalla scelta di fede: “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Mt 10,22). “E chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la troverà”(Mc 8,35).

La logica della fede è quella di Abramo, non è quella di Ulisse. L’eroe della tragedia greca è un uomo grande, sotto tutti gli aspetti: ma è un uomo al cui centro c’è sé stesso, le sue sicurezze: “T’amai, preziosa Itaca…”. Ulisse viaggia, soffre, combatte… ma alla fine vuole tornare a casa, ai luoghi che gli danno tranquillità, dove è cosciente di essere protetto. Abramo è l’uomo dell’ignoto, “partì, senza sapere dove andava” (Eb 11,8), perché Dio è la sua forza. Abramo è la fiducia fatta carne, e non per nulla nella santa liturgia lo chiamiamo “nostro Padre nella fede”. Abramo, in fondo, non ha nulla dell’eroe: è molto di più, è il santo: niente in lui è sforzo umano, tutto è Grazia, tutto è abbandono in Dio. Non cerca sicurezza: è Dio che gliela dà.

È sicuro perché vuol fare la volontà di Dio, e non fugge davanti ad alcun pericolo.

(Un piccolo inframmezzo: quest’anno inaugureremo la Cappella-Area Sacra di Bangana, che sarà dedicata a san Abramo Patriarca, la cui memoria liturgica nel Martirologium Romanum è prevista per il 20 dicembre: la vita cristiana avanza, tracciata dal solco santo di Israele…).

Che cosa sarei, come pastore del gregge che Cristo mi ha affidato, se fuggissi davanti al pericolo, se cercassi la mia sicurezza? E il popolo cristiano, può permettersi di fuggire? Se non fuggono loro, non devo fuggire neppure io. Cercherò in tutto di essere prudente, ma senza fuggire, restando al mio posto, là dove la provvidenza di Dio mi ha collocato. Se andassi altrove, che direbbe la mia comunità cristiana? Una cosa semplice e vera, come il sole che splende nel cielo: “Il nostro pastore ci ha abbandonati, nel pericolo è fuggito, lasciandoci qui da soli”. E perché mai dovrei fuggire per mettermi al sicuro? Solo per il gusto di morire di vecchiaia, sazio di giorni? Certo, se potessi scegliere mi andrebbe bene la prospettiva di una lunga vita tranquilla; ma – radicalmente – mi deve andar bene anche la prospettiva di morire per Cristo, non la devo escludere: se no sarebbe dichiarare stupida tutta la schiera dei martiri che ha fecondato col suo sangue la storia della Chiesa: Sive vivimus, sive morimur, Domini sumus (Rm 14,8).

E, del resto, prima o poi si deve pur morire, è solo questione di tempo, in fondo. A volte mi chiedo se ci crediamo ancora a ciò che dice la Lettera agli Ebrei, in un passaggio classico, un tempo citatissimo, ma ora un po’ abbandonato da una spiritualità chiaramente più intrastorica: Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus (la nostra città permanente non è sulla terra, ma nel cielo).

Perché tanta voglia morbosa di restare incollati alla città terrena? Alle cose che passano, anziché a quelle che restano? Il desiderio del cielo è ancora al centro della nostra vita cristiana?

Dobbiamo porci seriamente questo interrogativo.

Io, in più, sono un religioso, celibe, che non ha famiglia, che non ha figli del cui futuro si deve preoccupare: ho in questo una libertà che può anche permettermi più facilmente di essere disponibile a morire per Cristo. Inoltre, lo diceva già bene san Paolo: “Per me vivere è Cristo, e morire un guadagno” (Fil 1,21). Ma, lo ripeto, io preferisco vivere, e credo fermamente che il Paradiso può attendere: non cercherò mai il martirio (e questo anche semplicemente perché non sono mai stato molto santo: lo dico con un po’ di vergogna, ma è vero), tuttavia neppure voglio del tutto escluderlo: sarei un vigliacco davanti a Gesù, e non posso permettermelo, perché – anche se non sono molto santo – mi resta comunque una dignità cristiana a cui non voglio rinunciare.

In queste situazioni, sono in molti a voler riproporre ragionamenti analoghi a quelli dei falsi amici di Giobbe: mi si vuole convincere di cose insensate, solo in virtù di vane verbosità. Qualcuno avanza i possibili traumi psicologici in cui si potrebbe trovare gente attaccata o presa in ostaggio; e, certo, sono cose reali, serie: ma allora occorre valutare anche il contrario, quando, dandosi alla fuga, si dovrà poi vivere tutta la vita nel rimorso di aver abbandonato il gregge nel tempo della prova. Voglio dire che, in situazioni come queste, possibili danni ne potrebbero sorgere sempre: meglio allora – per la mia convinzione personale – che eventualmente ci siano per essere stati fedeli, piuttosto che infedeli.

Credo fermamente che non dobbiamo farci opprimere dal peso dei continui ragionamenti: saper ridere un po’ di se stessi e delle proprie situazioni storiche è cosa salutare. L’eccesso di seriosità non fa del bene a nessuno. La vita continua nelle cose di tutti i giorni, nelle gioie semplici della vita ordinaria, nelle quali gioca la mano di Dio che corona gli anni coi suoi benefici: andare avanti, con cuore puro, con occhi semplici. Un po’ di innocenza non guasta: i bambini continuano a giocare anche se c’è Boko Haram, e “Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli”.

Non contribuiamo a generare panico, ma Grazia e fiducia.

Perché tutti questi ragionamenti? È presto detto: è da tempo che molti amici, parenti, conoscenti, non fanno che dirmi, scrivermi “ma perché stai lì, con quei pericoli? Torna in Italia, cambia missione…”: il fatto è che, tutti questi, non sono che ragionamenti esclusivamente umani; anche se chi li fa non se ne rende conto, non li percepisce come tali; tuttavia sono i ragionamenti della sapienza umana che vuole rendere vana la Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25). La Croce è il “caso serio” della vita cristiana. Quando Pietro volle negarla, quel grande giorno, a Cesarea di Filippo, Gesù non esitò a dirgli “via da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; e chi la perderà, la salverà” (Lc 17,33). Ogni giorno devo farmi violenza per “non pensare secondo gli uomini, ma secondo Dio”: “il Regno di Dio soffre violenza, e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12).

Perché resto qui, anche se Boko Haram potrebbe uccidermi o rapirmi? Perché questa è la missione che Dio mi ha affidato: e chi sceglie la missione, non può scegliere la di-missione. L’una è alternativa all’altra. L’una è secondo Dio, l’altra è secondo gli uomini. Se siete d’accordo o no, in fondo, può anche non interessarmi. Ciò che conta, per un servitore, è che si sforzi di essere fedele. Che Dio, finalmente, sia d’accordo con lui, anche se gli uomini non lo sono.

E poi, siamo sinceri: che pericolo reale corriamo noi, qui nella zona di Yagoua, a circa 10 km dal confine col Ciad, ed a più di 300 dal confine con la Nigeria, dove effettivamente si svolgono le incursioni di Boko Haram? Certo, tutto è possibile, ma dire che siamo in zona di pericolo immediato significherebbe falsare la verità.

E allora, grazie a Dio, Buon Natale. Il Dio bambino sia la nostra gioia. Il Dio-con-noi la nostra letizia. Voglio vivere in questa santa compagnia, di Gesù, Giuseppe, Maria, i pastori, le pecore, i buoi, l’asinello. È così bello. Lasciamo i Boko Haram e la tristezza del mondo, e concentriamoci su questa bellezza che scende dal Cielo.

È Gesù, è il Signore. Quello che ci salva, e ci ama. Ancora Buon Natale, saluti cari a tutti.

  • SERGIO GALIMBERTI.
  • Da’na / Camerun, 24 novembre 2014.


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