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Dondo, 25 marzo 2013

Carissimi e carissime,

dall'alzarsi del sole le giornate scivolano via, rapide e dense. Alla sera invece, dopo il tramonto, tutto rallenta, fino a fermarsi, come un grande stand-by. Si muovono solo le zanzare, il treno del carbone e, nelle notti di luna piena, le mani sul tamburo che si ascolta a distanza. La sera ha il potere magico di dilatare il tempo.

Alla sera si legge, si scrive, si sosta sul tempo vissuto con occhio e parola di gratitudine. Terminato il portoghese a fine dicembre, preferisco aspettare ancora un poco prima di cominciare il cisena. Intanto, imparare qualche parola suscita il gusto dello studio che verrà, oltre che il sorriso di qualche nonna che nella vita di ogni giorno comunica solo con il sorriso e con il cisena. "Kulamuka" in cisena è "alzarsi".

Al mattino ci si alza all'alzarsi del sole, perché il tempo del sole decide il tempo dell'uomo. “Lamuka!“, dice la madre al figlio, vale a dire “Alzati!”. Poi, per strada, ci si saluta con "muacherua", che sarebbe "come il sole è sorto per te". Dopo che il sole ha raggiunto il suo vertice, il saluto diventa "madocherua", "come il sole sta scendendo per te". Perché il sole decide anche come stanno le persone. Ci si può alzare dopo avere dormito, oppure ci si può alzare dopo essere caduti. Questo avviene nel tempo di un giorno, come nel tempo di una vita. Ci si può alzare anche dopo essere morti. "Kalamuka" significa infatti alzarsi, ma anche risorgere. Tempo prossimo a Pasqua, tempo prossimo a Resurrezione, tempo prossimo all'alzarsi, tempo prossimo a Ulamuke.

Mãe Lúcia non ha ancora quaranta anni e non ha neppure il marito, che è morto qualche anno fa. Però mãe Lúcia ha sei figli e Paulino, il più grande, ha tredici anni. Mãe Lúcia è cieca. Totalmente cieca da quando era giovanissima. Julieta, la terzogenita, non va a scuola e accompagna la madre ovunque. Tre giorni a settimana mãe Lúcia va a Beira a chiedere l’elemosina al ponte dos cegos. Mãe Lúcia e i suoi figli abitavano in una capanna costruita su un piccolo appezzamento affittato. A inizio febbraio, in piena stagione delle piogge, il padrone del piccolo appezzamento ha mandato via mãe Lúcia e i suoi sei figli perché aveva bisogno di quella terra. Mãe Lúcia è rimasta senza capanna e, con dignità finissima, un pomeriggio è venuta a chiederci di aiutarla, mentre nel frattempo un’amica avrebbe ospitato tutta la famiglia.

Dopo averne parlato in comunità con Fabio e Chique, il sabato mattina seguente ne discutiamo alla riunione scout. «Si può fare», è la risposta unanime. Poche settimane prima è giusto arrivata una generosa offerta con la quale abbiamo già aiutato due mamme vedove ad aggiustare il tetto dopo la fine delle grandi piogge. Ci mettiamo al lavoro. Cominciamo prendendo le misure: sei metri per quattro, una sala e due stanze da letto. Poi al mercato a procurare il materiale. Pali portanti di eucalipto, parenti di bambù e matope, cioè fango, come si usa per le capanne di qui. Per il tetto, travi di buona missanda e lamiere di zinco, al posto del tradizionale capim, l’erba di campo che ogni anno necessiterebbe di una doviziosa manutenzione. Poi chiodi: otto chili di chiodi. Martelli e tanta buona volontà. Iniziamo il lavoro un giovedì mattina, ultimo giorno di febbraio, con Restelio, Simão, Chico e Januario che hanno scuola nel turno pomeridiano o notturno. Ci sono anche Tonito, João e Giacinto della comunità di santa Terezinha, una delle dodici comunità dell’area urbana, quella dove sorgerà la nuova dimora di mãe Lúcia.

Si lavora mattino e pomeriggio e alcune nonne delle pastorale della carità preparano un sostanzioso pranzo di riso, fagioli e foglie di manioca. Stessa cosa venerdì. Il sabato ci siamo tutti. Tutti a piantare chiodi per fissare il bambù, che fa da scheletro della casa, ai pali portanti. Nel frattempo, le ragazze preparano il pranzo. Il sabato successivo si lavora al tetto, alzando le travi di legno e fissando le lamiere di zinco. Qui, non tutto fila liscio come dovrebbe e con la massa-ferro si procede a chiudere qualche buco causato dai chiodi piantati male. Nei giorni della settimana, le nuove vicine di casa di mãe Lúcia danno una mano a collocare il matope tra gli interstizi del bambù assieme a Paulino che non vuole saperne di andare a scuola per vedere finita la sua nuova casa. Venerdì mattina con il falegname abbiamo collocato la porta. Ci siamo, manca solo qualche dettaglio.

Una nuova casa è stata alzata per mãe Lúcia e i suoi sei figli. Allo stesso modo anche mãe Lúcia e i suoi sei figli provano ad alzarsi, a risorgere. Questa è storia di Ulamuke, di Resurrezione. È storia simile ad un’altra storia di Ulamuke, di Resurrezione, avvenuta a Gerusalemme, poco meno di duemila anni fa. Colui che è Risorto per primo fa risorgere altri: prendendoci per mano ci fa rialzare. E si risorge, ci si rialza, assieme e solo assieme. Alzarsi, risorgere, kulamuka è forza e azione di comunità. Chi pianta un chiodo, chi taglia un palo di missanda, chi prende le misure, chi cuoce i fagioli, chi va al pozzo a prendere l’acqua per preparare il matope delle pareti: assieme si alza una casa, come assieme ci si rialza dopo essere caduti nella vita.

Ulamuke, Resurrezione, comincia qui sulla terra, giorno dopo giorno, dall’alzarsi del sole al suo tramonto. È la fede semplice, la lotta ostinata, la testimonianza potente di chi cerca di rialzarsi e di fare rialzare altri. Mentre la sete criminale di profitto da parte di multinazionali spietate e di politici corrotti dalle pance e dalle tasche gonfie, fa cadere e sanguinare un continente mettendolo sulla croce, ci sono donne e uomini, poveri ma maestri di dignità e di giustizia, che lottano per farlo rialzare, per farlo risorgere, per farlo camminare.

Da un angolo di questo continente, buon Ulamuke! Buona Resurrezione! Ogni giorno, dall’alzarsi del sole al suo tramonto…

ANDREA FACCHETTI.



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