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Dondo, 19 maggio 2013

Carissimi e carissime,

esiste per ciascuno un luogo dove i piedi e l’anima, che fino ad un attimo prima se ne andavano ciascuno per la sua strada, all’improvviso si bloccano e, senza accordi previi, esclamano all’unisono: «Casa!». È il luogo dove ciascuno diventa albero e fa penetrare le radici nel terreno della sua vita. Ecco, per me quel luogo è il fiume.

Cresciuto sulle rive di un fiume, con la canoa che mi fa da calamita come l’occidente per il sole che tramonta, qualcuno potrebbe pensare al Po nello specifico. No: ho scoperto che il luogo dove i miei piedi e la mia anima dicono «casa!» è il fiume nel senso di qualsiasi fiume. In riva ad un fiume, sono come un uccello migratore che si fa migliaia di chilometri dalla Siberia ghiacciata all’Africa bruciata dal sole, per il quale la prossimità di un fiume - qualsiasi fiume - diventa casa. Pensavo più o meno questo davanti al grande fiume Zambesi.

Parte prima (dove si parla di acqua).

Grande fiume Zambesi.  Percorre più di duemilacinquecento chilometri, a tratti rapidissimo nelle sue cateratte, a tratti flemmatico nei suoi meandri di pianura. Nasce nello Zambia e subito si permette di dargli il nome. Entra in Angola, ritorna nello Zambia dove, più avanti, fa da confine prima con la Namibia e poi con lo Zimbabwe. Percorre e taglia in due il Mozambico, per poi sfociare nell’oceano Indiano. Le canoe del grande fiume Zambesi sono lunghi tronchi scavati e chi le guida si mette a poppa e rema prima di qua e poi di là. In contemplazione davanti al fiume, la calamita entra inconsciamente in azione e mi assale un desiderio viscerale di prendere una canoa e partire. Ma i pescatori lì a riva, provvidenzialmente, mi informano che è pieno di coccodrilli. E quelli hanno ben altre calamite…

Cinquecento chilometri a nord-ovest di Dondo, attraverso il grande fiume Zambesi camminando sul ponte Dona Ana. Inaugurato nel 1935, con i suoi quasi quattro chilometri di estensione, è il più lungo ponte ferroviario dell’Africa Australe. Pur essendo il Mozambico all’epoca colonia portoghese, il ponte venne costruito interamente dagli inglesi che, attraverso la linea ferroviaria che dal Malawi arriva al porto di Beira, cercavano uno sbocco sull’oceano Indiano per le loro colonie. Da un lato del ponte, sulla riva sinistra dello Zambesi, ci sono i villaggi di Mutarara e Charre, dove lavorano due missionari Saveriani, p. Cesare e p. Justin. Dall’altra parte del ponte c’è Sena, dove lavorano altri due missionari Saveriani, p. Nicola e p. Polo.

Sena è il nome della cittadina omonima del popolo Sena e della lingua sena che tra due settimane comincerò a studiare. Sena dista circa trecento chilometri dalla foce dello Zambesi. Prima gli arabi e poi i portoghesi risalivano il fiume e arrivavano fino a qui per portare via avorio, oro e schiavi. Da queste parti si cominciò a chiamare l’uomo bianco, sia arabo che portoghese, con la parola n’zungo, termine ancora oggi utilizzatissimo. N’zungo significa letteralmente “colui che circonda”, dall’infinito kuzungulira, circondare. Arabi e portoghesi, a caccia di schiavi, si approssimavano ai centri abitati e affinché la gente non fuggisse, circondavano il villaggio. Erano n’zungo, di nome e di fatto. Nella memoria collettiva del popolo Sena e marchiata dal sangue dei propri antenati, è sedimentata l’identificazione dell’umano dalla pelle bianca con lo schiavista. Schiavitù, onta infame nella storia dell’umanità. Che non appartiene al passato, ma che si ripete ancora oggi, magari imbellettata per non essere immediatamente identificabile.

La parola “schiavitù” è innominabile sulla bocca della politica perbenista e della finanza incravattata. Così assume denominazioni più politically correct, per definire, di fatto, la medesima prassi. Danneggiato durante gli anni della guerra civile (1976 - 1992), il ponte Dona Ana ha ripreso ad essere operativo due anni fa per fare scorrere sulle sue rotaie il carbone che viene dalle miniere di Moatize, diretto principalmente in Cina e in India. Sul ponte Dona Ana l’anno scorso sono transitate più di tre milioni di tonnellate di carbone. Il traffico è controllato dalla Vale (brasiliana) e dalla Rio Tinto (britannico – australiana). Le due imprese concorrenti hanno annunciato che nel 2013 prevedono di estrarre sette milioni e mezzo di tonnellate di carbone: più del doppio dell’anno passato. A lato della linea ferroviaria, c’è una passerella per chi il ponte lo attraversa da libero essere umano e non da pezzo di carbone. Ma se per il carbone c’è il treno, noi umani il ponte lo si attraversa a piedi o tutt’al più in bicicletta, facendo attenzione a non cadere nei pericolosi vuoti che si incontrano tra una trave e l’altra, perché lì in basso ci sono la corrente vorticosa del fiume assieme ai coccodrilli. Due strade che percorrono il medesimo tragitto: una ben attrezzata e tecnicamente alla portata di un commercio globalizzato, destinata allo spostamento delle risorse naturali sfruttate dal capitale straniero. L’altra, viottolo trascurato e miserabile, per l’umano che da sempre lì abita e che ogni giorno vive la beffa di vedersi espropriato delle proprie risorse. Due strade: l’una parallela all’altra. L’una estranea all’altra. Come ricchezza e giustizia. Parallele ed estranee l’una all’altra.

Parte seconda (dove si parla di terra).

Fino ad ora si è parlato di acqua. Per non farle un torto, ora parlerò di terra. Una mattina di novembre, mentre mi lavo i denti, ascolto alla radio nazionale di un grande progetto agroindustriale da parte di una impresa cinese nel distretto di Dondo. Chiedo in giro: nessuno sa niente. Vado ad informarmi anche al Municipio e al Distretto (quello che in Italia si chiama Provincia): anche lì, nessuno ne è a conoscenza. «Colpa del dentifricio o del mio povero portoghese, avrò capito male», mi dico.

Una mattina di dicembre, la notizia viene ripetuta. «Insomma, sarò mica fesso!», mi dico. Cominciamo a parlarne con la gente delle nostre comunità, con la speranza che qualcuno riesca a reperire qualche informazione in più. Ma niente da fare. E al Municipio e al Distretto continuano tutti con la bocca cucita: a fine novembre 2013 ci saranno le elezioni autarchiche – equivalenti alle amministrative – e immaginarsi se dicono qualcosa. Tutto fermo fino ad aprile, quando un amico di Beira, mi dice che sul “Diario de Moçambique”, c’è la notizia a pagina due, con l’intervista all’imprenditore cinese che sta negoziando con il Municipio e il Distretto di Dondo l’acquisto di 3000 ettari di terra in Mandruze. «Vigliacchi!», dico stavolta. Mandruze è un vastissimo spazio di terra fertile, benedetto dall’acqua, dal sole e dal lavoro di migliaia di mani operose. In Mandruze, ogni famiglia di Dondo ha la sua machamba, vale a dire la sua terra coltivata, principalmente a riso. Mandruze, a Dondo è sinonimo di cibo e quindi di vita. Togliere Mandruze significa mettere alla fame la maggior parte delle famiglie di Dondo che sopravvivono grazie a quel loro fazzoletto di terra. Cominciamo ad organizzarci.

Prima di tutto, la notizia va diffusa. Subito in aprile, con p. Fabio, convochiamo un incontro con i responsabili delle dodici comunità della parrocchia che, in questo modo vengono informati e assumono l’impegno di diffondere il più possibile la comunicazione. Anche l’Eucaristia della domenica è l’occasione per fare girare la notizia. A metà omelia, spiegando che 3000 ettari è un rettangolo di 5 km per 6 km, chiedo quanti sono a conoscenza di ciò che rischia di succedere in Mandruze. Otto alziamo la mano. A fine messa, siamo almeno seicento: con il sorriso di sempre, ma stavolta un po’ più arrabbiati. Passo poi l’articolo a un ragazzo della parrocchia che lavora alla radio, il quale, dopo un po’ di titubanza, si convince a leggere la notizia. Arriva maggio e organizziamo tre giorni di formazione con la Commissione diocesana di Giustizia e Pace. Giorni belli, ma anche difficili. Difficoltà a fare percepire la gravità del problema. Ma, soprattutto, difficoltà a fare comprendere che il processo può essere bloccato se si è uniti. Ci si trova a combattere, prima di tutto, con i propri mostri: impotenza, rassegnazione, fatalismo. Di fronte ad uno stato di cose dove il debole, da sempre, è destinato a soccombere, perché l’esito dovrebbe essere differente proprio stavolta? A secoli di oppressione con la testa tenuta china dalla prepotenza coloniale, si aggiunga una società dove è tabù mettere in discussione il principio di autorità: è fatica, allora, prendere coscienza dei propri diritti e della propria forza. Forza di poveri e forza di popolo. Però la settimana scorsa accade l’imprevedibile: sindaco e governatore del Distretto vengono contestati durante un comizio proprio a causa di Mandruze. Mai successo. Promettono che la terra non sarà venduta. Ma c’è da fidarsi di un politico in campagna elettorale? Ci impegniamo a tenere occhi, bocca e orecchi aperti.

Conclusione (davanti al tramonto di un inverno tropicale).

Nell’assenza della prossimità di un fiume, ogni tanto, sotto sera, prendo la bicicletta e vado a contemplare il tramonto del sole in Mandruze. Spazio vasto che si perde all’orizzonte tra le infinite gradazioni che dal giallo del riso pronto alla mietitura sfumano al cerchio rosso di un sole da inverno tropicale. A gruppi sparuti, la gente torna dalla campagna, con il sorriso sulla bocca e con il sacco di riso appena raccolto sopra la testa. Mi chiedo: «Cosa potrà esserne di Mandruze tra qualche anno? Fino a quando si saprà resistere agli interessi e ai giochi di potere dei pochi fatti a danno della vita dei molti?». E prego il Dio della vita perché continui a benedire i sentieri di chi cerca giustizia.

Um abraço! Tiri papodzi!

ANDREA FACCHETTI.



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