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0. Capelli diradati

A giugno la mia vita ha compiuto trentasette anni, gli ultimi quattro dei quali vissuti in Africa. I capelli si fanno sempre più diradati nella parte centrale della testa, mentre ai lati compaiono i primi di colore bianco.  Anche tra la barba, quando non la rado per alcuni giorni, si notano i primi peli incanutiti.

Nella testa, assieme ai capelli diradati, sono rimasti per un buon tempo anche i pensieri che stanno qui sotto.

Poi, un pomeriggio con la testa pesante per la seconda malaria in pochi mesi, mi sono levato dal letto e ho levato i pensieri dalla testa. Perché, sì è vero che la malaria ti sfianca orizzontale per alcuni giorni con dolori in tutte le giunture del corpo, ti pervade con un senso di spossatezza e malessere che, come conseguenza, non ti dà la voglia di fare assolutamente nulla. Trasforma per alcuni momenti il tuo cervello in un campo di bombardamento e produce una distorsione della temperatura percepita per la quale quaranta gradi appaiono come fossero freddo polare. Però, la malaria, ha anche qualche merito. Quando la vita attorno è vortice che corre, esercita il potere magico di sospendere il principio elementare ed immutabile del fluire del tempo. Dilatato e reso innocuo il tempo, la malaria esercita successivamente il suo secondo potere sacro. Quello di fare scivolare i pensieri fuori dalla testa e di dare loro la forma delle parole.

1. Nella testa, sogni allucinati

Da quando sono a Chemba, il ritmo della mia vita ha subito una notevole e felice accelerata. Fino ad ora, la malaria è l’unica forza capace di rallentarlo. Cosicché anche le mie lettere hanno preso la cadenza ritmata dalle malarie, appunto. Tra una malaria e l’altra, sono volate zanzare ed è anche volata la vita.

Senza dubbio questa è stata la più forte di tutte. La cura abituale - a base di un principio attivo chiamato artemisina - prevede tre giorni di cura. Terminata quella il parassita è debellato. In alcuni casi può succedere che invece la malaria sia più forte e, terminata la cura, i sintomi continuino. Come è successo stavolta.

Metà agosto, è terminato il secondo dei tre trimestri, i ragazzi e le ragazze delle due case di accoglienza sono in famiglia. Previsione di tempo tranquillo, atteso ardentemente per leggere, studiare, forse anche scrivere un po’. Il lunedì pomeriggio ho un incontro di “Giustizia e Pace” nella comunità di Mponha, a 55 km. Però, a metà mattina, sono terribilmente debole. Forse è per colpa del gallo che mi ha svegliato cantando sguaiatamente e senza sosta a partire dalle due e mezza del mattino. Accidenti al gallo. Provo la febbre: 38°. Lascio l’incontro a padre Enrique e vado all’ospedale. Il test rapido della malaria risulta negativo. «Torni domani mattina per fare il test approfondito di laboratorio», mi dice l’infermiere. La mattina seguente non è necessario andare all’ospedale. Anche perché neanche riesco ad alzarmi dal letto. La testa tuona e rimbomba, la febbre è salita e i dolori sono in tutto il corpo. Tengo sempre con me l’antimalarico e comincio subito. Giovedì la cura è terminata. I sintomi della malattia invece persistono.

Venerdì dovrei partire per incontrare quattro comunità e tornare domenica. Enrique, prendendo atto che il mio volto è più bianco della maglietta che indosso, si offre per sostituirmi. «Domani starò meglio e andrò io», affermo con una punta di orgoglio missionario. Detto e fatto. Sabato all’alba parto. Sessanta km di savana ridotta a deserto a causa della siccità che non dà tregua, per raggiungere la comunità di Pfumbe. Poca gente. Molti se ne sono andati a causa della carestia. Il pomeriggio riparto e vado nella vicina Kassume. Dopo una riunione con la comunità e l’Eucaristia, mi offrono un secchio con l’acqua per lavarmi. Emana un effluvio inconfondibile di capra ed esibisce grumi bianchi di grasso che di certo avrà ben tonificato il mio corpo coperto di polvere. Ceno con polenta di miglio e gallina. Converso con una coppia che ha qualche problema coniugale e verso le dieci mi ritiro nella mia capanna, stendendomi sulla stuoia di paglia. A mezzanotte mi sveglio con le tempie che rimpallano calci al pallone da una parte all’altra. Mi rigiro sulla stuoia senza dormire fino alle sei. Al mattino esco dalla capanna, chiedo scusa alla comunità, dicendo che l’unica cosa che riesco a fare al momento è salire sulla macchina e tornare a Chemba. Vedendo il mio volto stravolto, capiscono al volo.

È domenica e provo ad andare all’ospedale, sapendo che nei giorni festivi c’è l’infermiere di guardia che ha solo le aspirine. L’amico, invece, ha pietà di me. Manda a chiamare il tecnico di laboratorio che prontamente mi esegue l’esame del sangue. La malaria continua. Eccome se continua. «Signor padre, stavolta ci vuole il chinino. Due ogni otto ore, per sette giorni. Ecco».

Fino ad allora, la parala “chinino” l’avevo sentita nominare da mia nonna quando, uscendo da bottega, diceva in dialetto viadanese: «Lè car me al chinëin», ovvero «È caro come il chinino». Ci voleva l’Africa a farmi sperimentare i suoi mirabili effetti. Tra le tante controindicazioni, il chinino infiamma un nervo del canale uditivo per cui si rimane temporaneamente sordi. Per più di una settimana mi sembrava di stare su un aereo oppure di avere due bicchieri di vetro come tappi sulle orecchie. Come se non bastasse, nei momenti di silenzio, l’udito fischiava senza sosta come un treno che è lì per arrivare in stazione, ma non si sa per quale motivo, non arriva mai.

Poi ci sono i sogni. Come quello che mi vedeva presso la Casa Madre dei Missionari Saveriani a Parma in via san Martino 8. Quel giorno c’era una grande conferenza. I corridoi alti e maestosi erano affollati di persone incravattate e in doppio petto. Alle pareti cartelli colorati a spiegare non so che. E io che me ne andavo in giro in mutande e ciabatte con un asciugamano bianco sulla spalla a cercare disperatamente un bagno che però non trovavo. Sogni allucinati indotti da chinino, in mezzo alla savana africana, a due passi dal grande fiume Zambesi.

2. Nella testa, il chiasso al tramonto

La strada che ci mette in comunicazione con il resto del mondo segue parallelamente - ma a distanza per il pericolo delle piene - il corso del fiume e passa a duecento metri da casa nostra. È una strada sterrata, polverosa e pessima, per molti tratti impraticabile durante il periodo delle piogge. Subito dopo il tramonto, dalla strada, si ascolta il chiasso dei tir che transitano. Il frastuono è forte per motivo della loro mole che procede ponderosa sopra buchi che a volte sembrano crateri. Ne passano tra i cinque e gli otto ogni sera. Dopo quindici anni di abbattimento folle di foreste secolari, nell’intero distretto di Chemba sono ormai rimaste poche le aree dove tagliare. Se i tronchi che trasportano sono enormi si può stare certi che provengono dalla riserva di Catulene. E se passano all’ora del tramonto – quando la polizia di transito ha già smontato – se ne ha la conferma.

La riserva di Catulene comincia a Chiramba, a 40 km da Chemba seguendo il corso del fiume. Da Chiramba entra per 40 km fino a Catulene, per proseguire altri 15 km dopo. Se un lato è di 55 km, degli altri ho solo un’idea approssimativa. A Catulene siamo stati con Alberto e Rosa della Commissione Diocesana di Giustizia e Pace. Ho chiamato da Beira anche João che, tre anni fa quando ero a Dondo, ci aveva aiutato nella difesa della terra di Mandruze. Nel frattempo João è cresciuto e sta terminando la tesi in Giurisprudenza.

Se la riserva di Catulene è riserva, perché si sta tagliando? Perché i tir passano e nessuno si preoccupa? Qual è il circuito del taglio illegale di legname? Chi sta tagliando a Catulene e nelle altre aree del Distretto di Chemba? A chi vende? A quanto vende? La popolazione autoctona riceve alcun indennizzo? Qual è il grado di connivenza dei leader locali e della Frelimo? Tante le domande sul tavolo. Se si vuole cominciare a fare qualcosa si deve avere una visione il più chiaro possibile di quello che sta accadendo. È come se dovessimo svolgere un tema in classe, oppure scrivere un articolo, dal titolo “Il taglio illegale di legname pregiato nel Distretto di Chemba”.

In questi mesi stiamo raccogliendo molto materiale, nel tentativo di rispondere alle tante domande riportate sopra. Il Distretto di Chemba è suddiviso in cinque aree, corrispondenti ciascuna allo spazio di giurisdizione dello nyakwawa, il leader tradizionale. Andando nelle cinque zone e incontrandoci con la gente delle nostre comunità cristiane sappiamo i nomi di chi ha tagliato, se era in possesso di una licenza, se la comunità è stata consultata e se sta ricevendo alcun beneficio, i nomi degli eventuali feriti o morti sul lavoro, se la famiglia ha ricevuto un indennizzo e così via. Una base di dati ben documentata è il primo passo per una possibile futura azione legale. A luglio sono stato a Beira e sono entrato in contatto con una ONG che riceve finanziamenti dal nord Europa e che lavora nel campo della difesa dei diritti dei contadini e delle loro terre. Condividendo informazioni e scambiandoci materiali e idee, vengo a sapere che la riserva di Catulene, essendo riserva dovrebbe essere dello stato. Però esiste una sorta di “proprietario”: un potente ex-ministro, uomo forte della Frelimo. E non è il solo. Nel Distretto, un altro ex-ministro sta tagliando tramite persone della sua famiglia. Poco alla volta il groviglio comincia a dipanarsi.

Abbiamo cominciato nei mesi scorsi a tradurre in Chisena e a divulgare nelle comunità la Legge della Foresta. Accanto a questo processo dal basso di presa di coscienza dei propri diritti da parte delle comunità, si fa ora parallelamente urgente un’azione più penetrante e verticale. Magari ricorrendo alla via legale. Coperture potenti dall’alto, corruzione tentacolare ad ogni livello, collusione della magistratura, connivenza dei leader tradizionali, ricchezza che finisce a gonfiare le tasche dell’élite politica mentre la popolazione continua affossata nella miseria. Pensieri vari che si affastellano nella testa. E che affiorano puntuali all’ora del tramonto, con il chiasso dei tir in sottofondo.

3. Nella testa, granoturco, fagioli e numeri

Ad agosto ho terminato di comprare il granoturco e i fagioli per i primi due trimestri del prossimo anno scolastico, che comincerà a febbraio. Con il granoturco si cucina una polenta chiamata nshima che, assieme ai fagioli, è l’alimento principale dei 70 ragazzi e delle 20 ragazze che vivono nelle due case di accoglienza. Questo era il tempo della raccolta: più passano le settimane, più il prezzo è destinato salire. A dire il vero il prezzo era già salito in precedenza rispetto all’anno scorso a causa della siccità e del conseguente misero raccolto. 20 kg di granoturco l’anno scorso si compravano a 200 meticais. Quest’anno a giugno si compravano a 300 meticais. Adesso siamo già a 450 meticais: più del doppio rispetto al 2015. Al mercato di Chemba non si trovava granoturco in quantità: il poco che si produceva era appena sufficiente per l’auto sussistenza famigliare. Così, per comprare l’altra metà di mais di cui necessitavamo, per tre volte sono dovuto andare a Caia - 100 km di andata e altrettanti di ritorno - e caricare il Toyota Land Cruiser ogni volta con 12 quintali di granoturco. A Chemba la situazione non è facile: molte persone sono a rischio denutrizione nei prossimi mesi. Con la comunità cristiana, abbiamo creato quattro gruppi che regolarmente visitano i quattro quartieri del villaggio, aiutando le persone in difficoltà con riso, granoturco e zucchero.

Ma è l’intero paese ad essere sul lastrico. La siccità è solo una delle cause e non è di certo la principale. Ricchissimo di gas, di carbone, di legname e di pietre preziose, per dieci anni,l’economia del Mozambico ha galoppato con una crescita del PIL all’8%. Dati macroeconomici che vanno presi con le pinze, poiché non si sono tradotti in un miglioramento effettivo della vita della popolazione che, invece, ha visto aumentare di due milioni di persone il numero dei poveri. Dati che, tuttavia, manifestavano una certa tendenza dell’economia. Poi, negli ultimi mesi, d’improvviso, l’incantesimo si è spezzato. Quando l’anno scorso ad ottobre tornavo dalle ferie, un euro valeva 45 meticais. Ora ne vale 80. Assieme alla svalutazione della moneta, il PIL è crollato dal 8% al 2%, mentre è esplosa l’inflazione. Ad esempio quella dei beni alimentari è salita a più del 50% nel giro di un anno. Cosa è successo? Due cause strettamente interconnesse tra di loro: l’esplosione del debito e la guerra. Ai miei ragazzi l’ho spiegato così...

4. Nella testa, come spiegare debito e guerra ai miei ragazzi

Il sabato mattina - quando non parto il venerdì per andare nelle comunità - siamo soliti riunirci con i ragazzi e le ragazze delle due case di accoglienza per vedere come sta andando la nostra vita assieme. Siamo novanta: allora, a volte, è più facile dividerci in gruppi, in modo che ognuno sia più facilitato a prendere la parola. Poi, ci si riunisce di nuovo assieme e si condivide in plenaria. Si discute, si affrontano i problemi, si organizzano i lavori. Si prova a crescere assieme.

Un sabato di luglio, sulla lavagna del salone, abbiamo disegnato una tabella. Nelle colonne abbiamo scritto i nomi dei mesi. Nelle righe abbiamo inserito i nomi di alcuni prodotti che fanno parte della nostra vita quotidiana. Dentro abbiamo scritto i prezzi e abbiamo provato a spiegare cosa significa la parola “inflazione”. Ad esempio: una penna a febbraio costava 5 meticais, adesso ne costa 10. Un fusto di 20 litri di olio costava 950 meticais, adesso costa 1950 meticais. 20 kg di zucchero costavano 850 meticais, adesso ne costano 1200. Il dentifricio costava 30 meticais, adesso ne costa 50. E così via.

Dopodiché abbiamo cercato le cause. I prezzi sono aumentati, perché la nostra moneta ha perso valore. E perché ha perso valore? Per due ragioni. Primo: perché, a livello mondiale, è diminuito il prezzo di alcuni beni che il Mozambico esportava, come il carbone e il gas. Ma, soprattutto - e questa è la seconda e principale ragione - perché il paese si è fortemente indebitato. Per fare cosa? Per fare la guerra.

4.1 Parentesi un poco barbosa ma altrettanto necessaria

E qui provo ad entrare nei dettagli che ho risparmiato ai ragazzi. Ad aprile 2015 il governo mozambicano annuncia l’acquisto di 30 imbarcazioni da parte di una impresa pubblica chiamata Ematum. La maggior parte delle suddette imbarcazioni - costruite in Francia - è destinata alla pesca del tonno nel Canale del Mozambico, mentre la rimanente serve al pattugliamento antipirateria. Costo totale dell’operazione 850 milioni di dollari. I due partiti di opposizione e i pochi organi di informazione fuori sistema criticano l’acquisto come non opportuno e non certamente prioritario in un paese dove il 54% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Inoltre, 850 milioni di dollari sembrano un valore a dir poco eccessivo per 30 imbarcazioni. Dove stanno andando i soldi?

Nel frattempo comincia a lievitare l’inflazione e il metical si svaluta. Per di più, ad ottobre, il governo della Frelimo, dopo tre tentativi falliti a settembre di ammazzare il leader dell’opposizione, ricomincia la guerriglia con la Renamo. Passano i mesi e arriviamo a marzo 2016, quando comincia a venire a galla quello che molti sospettavano. E per farlo venire a galla ci sono voluti il Financial Times e il Wall Street Journal che pubblicano due articoli relativi ad un secondo e ad un terzo debito, entrambi tenuti nascosti, contratti da altre due imprese pubbliche mozambicane con banche svizzere e russe, rispettivamente di 632 milioni di dollari (Proindicus) e di 535 milioni di dollari (MAM), ufficialmente per attività non ben specificate inerenti l’attività marittima. Insomma, più 2 miliardi di dollari di debito non approvati dal Parlamento e quindi occultati all’opinione pubblica e ai creditori internazionali. Il tutto in maniera illegale - perché non entrati nel Documento di programmazione economica del Governo del 2015 - ma, soprattutto, immorale, se pensiamo che un terzo del bilancio dello Stato proviene da aiuti esterni e che, ad esempio, tutti i costi per pagare le spese della sanità e dell’educazione - dagli stipendi di medici, infermieri e professori alle medicine - sono sostenuti interamente da programmi della cooperazione internazionale.

Nel giro di due settimane Stati Uniti, Gran Bretagna, 14 paesi dell’Unione Europea tra i quali anche l’Italia, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale sospendono immediatamente tutti i sostegni e i prestiti al governo mozambicano. Il primo ministro è convocato a Washington, mentre le agenzie di rating internazionale classificano come CCC - vale a dire “spazzatura” - i titoli di stato mozambicani e le azioni delle tre imprese pubbliche che avevano contratto debiti per più di 2 miliardi di dollari. Insomma, vuoi per la responsabilità di una classe politica famelica e disastrosa, vuoi per la speculazione tentacolare del capitale internazionale, il Mozambico si trova sul baratro dell’insolvenza e della bancarotta.

5. Nella testa, la morte che attacca la vita

« ... perché il paese si è fortemente indebitato. Per fare cosa? Per fare la guerra.» Dicevo ai miei ragazzi. Che la storia dei più di 2 miliardi di dollari per le navi da pesca da tonno non stava in piedi, s’era capito quasi subito. Allora, dove sono finiti realmente i soldi? Poco alla volta, si scopre che dietro le tre imprese pubbliche che hanno contratto il debito nascosto ci sono holding che fanno riferimento al ministero dell’Interno, al ministero della Difesa, all’esercito e ai servizi segreti. Emergono le prime inchieste giornalistiche che documentano l’acquisto di armamenti sofisticati, mezzi blindati, sistemi di intercettazione telefonica, radar, droni e che forniscono prove della presenza nel paese di soldati mercenari provenienti dalla Corea del Nord, dalla Cina e dallo Zimbabwe. Il tutto «per fare la guerra», appunto.

La chiamano guerra a bassa intensità: si combatte in zone di foresta e scarsamente popolate. Inoltre, rapimenti e omicidi selettivi di membri dell’opposizione contribuiscono a creare una strategia della tensione che genera paura e immobilizza la parte sana della società. Dopo le elezioni fraudolente di due anni fa, sul tavolo c’è il controllo politico del paese e la spartizione delle sue immerse risorse naturali, fino ad ora accaparrate dalla Frelimo e svendute al capitale straniero. Ma le pallottole e i morti di una guerra a bassa intensità non sono diversi dalle pallottole e dai morti di una qualsiasi altra guerra.

Ai primi di maggio sono di ritorno da Beira, capoluogo di regione che dista 500 km da Chemba. La settimana precedente la Lusa - agenzia di stampa portoghese - ha pubblicato un articolo relativo alla presenza di fosse comuni su una strada secondaria che interseca la strada nazionale n°1, dopo Gorongosa, in direzione di Macossa. Quindici cadaveri sparsi, in stato avanzato di decomposizione, sarebbero prossimi alla strada, mentre un’altra fossa comune con più di cento cadaveri sarebbe a circa un’ora di cammino su un sentiero che si inoltra nella boscaglia. Il governo smentisce. Convoca il giornalista della Lusa e lo obbliga a ritrattare pubblicamente quanto scritto.

Di solito, in Africa, non si viaggia da soli. Kufamba awiri ndi mitombwe, “viaggiare in due è medicamento”, afferma un proverbio Sena. Stavolta, invece, sono solo, sul Land Cruiser carico di due fusti di gasolio di duecento litri ciascuno e un quintale di pesce secco per i ragazzi. Il tragitto che devo percorre passa proprio da quel tratto di strada. È sabato ed è un giorno di sole. Sono in viaggio dalle cinque del mattino e sono quasi le undici. Per molti chilometri non incontro veicoli. Più avanti, infatti, comincia,la scorta militare obbligatoria e i mezzi che provengono in senso contrario partiranno alle quattordici. Arrivo in prossimità dell’incrocio e decido di entrare. Scendo dalla macchina e cammino alcuni passi. Gracchiare di corvi, vento lieve tra l’erba alta e un odore che rimarrà inchiodato nella mia testa per lungo tempo. Ho visto. Per un attimo, ho avuto paura. Ho alzato la testa al cielo. Gli occhi si sono chiusi, mentre - credo per la prima volta nella vita - la mia mano destra ha disegnato automaticamente, senza intenzione cosciente, un segno di croce sul mio corpo. Fino a quel mattino di sole di maggio, la morte non aveva mai attaccato così violentemente il senso della vita.

La testa in riva al fiume

La testa si porta dentro la vita. A volte, non serve la malaria. È già pesante di per sé, per la vita che si porta dentro. Allora, mi piace camminare in riva al fiume. L’acqua che scorre mi ricorda che, alla fine, tutto passa. E se tanto immenso scorrere di acqua non fosse sufficiente, la gente che torna dal fiume con la tanica sopra la testa o con la zappa sulla spalla, me lo conferma. Senza tanta filosofia. Semplicemente col suo sorriso e col suo saluto. Perché davanti alla morte, all’ingiustizia, alla violenza, alla paura tutto può sembrare perduto. Ma è solo un attimo. C’è un attaccamento alla potenza della vita che è più forte.

E Dio abita in profondità questo attaccamento alla potenza della vita. Di questo, ne sono testardamente convinto.

  • Chemba, 14 settembre 2016.
  • BABA ANDREA.


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