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Charre, 18 maggio 2015.

1. Dipendenze da dentro l’armadio.

Kizito l’aveva seminato alla fine di dicembre. Il giorno precedente era caduta la prima pioggia. Agli inizi di aprile l’ha cavato dalla terra sconsolata da una stagione avara di acqua. Seduto dopo pranzo sotto l’albero di china, l’ho visto crescere, dal suo germogliare rapidamente subito dopo la semina, fino alla raccolta. Sotto l’albero di china, in mezzo all’orto di casa, dopo pranzo, col sapore del caffè in bocca, tra il granoturco seminato da Kizito.

È piovuto tanto. Tantissimo. Ma è anche piovuto poco. Pochissimo. La risoluzione dell’antinomia sta semplicemente nel fatto che è arrivata tutta in una volta. A gennaio, prima l’acqua è scesa dal cielo. Venuta con potenza e costanza ha rapidamente impregnato la terra. Poi l’acqua è cominciata a salire dalla terra. Prima è salita dallo Zambesi. Pochi giorni dopo è salita dallo Chire, che dello Zambesi è affluente. Due fiumi in piena: con lo Zambesi che impediva il deflusso dello Chire. La terra e la sua gente stanno lì in mezzo. E la terra qui non ha argini. Così i letti dei due fiumi si sono allargati di chilometri. La grande pianura dello Chire e dello Zambesi è diventata un grande lago. Una domenica pomeriggio di gennaio avevamo l’ippopotamo a fare il bagno a duecento metri da casa nostra. E qui a Charre siamo a quindici chilometri dallo Zambesi. La stagione delle piogge dovrebbe protrarsi fino ad aprile. Invece, passa febbraio, passa marzo, passa aprile: il cielo, dopo averle fatto fare gli straordinari, pare avere mandato in ferie la pioggia prima del tempo.

Pai Bras - anziano catechista che nei tempi della guerra civile risaliva lo Chire in canoa per andare in Malawi a prendere farina ed Eucaristia per chi aveva deciso di restare - dice che era dal 1974 che non si verificava una piena di questa portata. Centinaia di famiglie hanno perso la loro capanna e il raccolto della prima epoca. Per alcuni giorni, molti hanno trovato rifugio e solidarietà nelle chiesette di Nyaeka, Tembe-Tembe, Kanyungwe e Minyemba. Nessuno è tanto povero da non dare nulla ad un altro povero.

Le piene si sono portate via anche alcune linee della fibra ottica. Così siamo rimasti per due mesi senza rete: dettaglio non irrilevante in tempi di dipendenze globali. L’unico posto della casa nel quale il telefono riceveva era da dentro l’armadio a muro della stanza degli ospiti. Un metro quadrato di provvidenziale cabina telefonica. Per due mesi le prime parole di ogni telefonata sono state piuttosto simili: «Baba Andrea tutto bene? Hai una voce un po’ strana». «Chiedo scusa. È che sto parlando da dentro l’armadio». Più problematico mettersi dentro l’armadio con il computer. Per non so quale arcano dell’etere, dopo qualche giorno ho trovato un poco di rete sotto l’albero china, in mezzo all’orto di casa. La rete andava e veniva. Quando non pioveva, quando c’era tempo, dopo pranzo, con il sapore del caffè in bocca e il computer sulle ginocchia, tra il granoturco seminato da Kizito.

2. Dipendenze da sotto la tenda.

Dopo la piena è arrivato il colera. Sembra sia stato portato dalle montagne sopra Chinjale - a 50 km da qui - dove la ricerca dell’oro è abbaglio per anestetizzare la povertà in cui si è immersi. Una sera di aprile, dopo cena, battono alla porta per chiedermi di accompagnare una anziana colpita da colera all’ospedale rurale di Mutarara, a 15 km da Charre. La signora, in fin di vita, viene caricata sul cassone posteriore del Land Cruiser. Arrivato a Mutarara la signora viene posta sotto una tenda dove sono mantenuti in isolamento i malati di colera. Prima di partire vengo disinfettato col cloro, assieme alla macchina.

A Mutarara il colera non c’era. Però c’era l’ospedale rurale con la tenda di isolamento per i malati di colera. A Charre, invece, il colera c’era. Ma non c’era la tenda di isolamento. Così famigliari o amici di chi avvertiva i sintomi di colera dovevano caricare il malato sulla bicicletta e avventurarsi per la strada sterrata sabbiosa che conduce a Mutarara. Oppure passavano da casa nostra dove speravano di trovare un passaggio sul cassone della jeep. Il governo e l’unità sanitaria locali inizialmente avevano negato e nascosto l’esistenza del colera per timore di perdere la faccia e la poltrona. Durante questo tempo, i pazienti erano mantenuti in isolamento all’esterno del piccolo dispensario di Charre. Isolati a modo loro: giorno e notte sotto gli alberi, stessi per terra, con la flebo appesa ai rami. Così è stato per le prime tre settimane dall’inizio dell’epidemia. Alla fine di aprile, si era arrivati a quindici morti per colera in un piccolo villaggio di capanne sparse come Charre. Invano palare col direttore dell’ospedale di Mutarara, con lo Chefe de Posto de Charre, con l’Amministratrice del Distretto di Mutarara. Un giorno ho pensato alle dipendenze globali del paragrafo precedente e abbiamo tentato un’altra via: «Se entro domani non viene portata la tenda e le cure necessarie a Charre, chiamiamo la televisione». Puntualmente il tutto è arrivato ed ora la situazione lentamente va normalizzandosi.

Il colera si è portato via anche due amici. Pai Djemule, padre di Carlos, il ragazzo che faceva il pane nella lettera n° 12. A fine novembre, prima dell’inizio delle piogge, Carlos aveva lasciato Charre per andare a cercare fortuna altrove. «Aenda kasaka ucherengi», «È andato a cercare povertà», diceva pai Djemule, col sorriso paterno sulla bocca, mentre impastava la farina, sperando in cuor suo di non dovere ricominciare il lavoro che aveva insegnato al figlio e che credeva di avere lasciato una volta per tutte.

Si è portato via anche Sabudo, il ragazzino della lettera n° 11, che puntualmente ogni lunedì mattina ci portava il latte per fare il formaggio. Sabudu era il primo dei quattro figli di Mãe Flora, giovane vedova che avevamo aiutato, assieme alla comunità cristiana, nel rimettere in sesto il tetto della sua capanna. Sabudu al mattino mungeva e andava a pascolare le vacche di pai Chibvuto. Il pomeriggio invece andava a scuola. Il lavoro di Sabudu era l’unica fonte di entrata della famiglia.

Pai Djemule, Sabudu e tutti gli altri. Portati via dal colera. Portati via dall’inettitudine e dal lassismo di una classe politica parassita incapace di vedere oltre l’orizzonte della propria pancia.

3. Indipendenze dipendenti.

Il 25 di giugno il Mozambico celebrerà 40 anni di indipendenza. Correva l’anno 1975 quando, dopo undici anni di conflitto armato contro il duro colonialismo portoghese, si dichiaravano “indipendenti e liberi la terra e l’uomo”. L’anno successivo cominciò la guerra civile. In tempi di Guerra Fredda il Mozambico diventò campo di battaglia di giochi di potere decisi altrove. Sedici anni di conflitto, un milione di morti e cinque milioni di sfollati. Firmati gli accordi di pace il 4 ottobre del 1992, il Mozambico si è lentamente aperto alla democrazia. Molto rapidamente, invece, si è aperto al capitale straniero.

Nel Canale del Mozambico c’è uno dei più importanti giacimenti di gas naturale del pianeta. Nel 2006 vennero date le prime concessioni. Attualmente operano l’Andarko (USA), l’Eni (italiana), la Statoil (norvegese), la Cnpc (cinese), la Galp (portoghese) e la Petronas (malese). Si stima che nella sola area controllata dalla Eni ci siano riserve per 2407 miliardi di metri cubi di gas, sufficienti per soddisfare per oltre 35 anni il fabbisogno italiano. L’intero bacino pare custodisca oltre 6000 miliardi di metri cubi di gas.

Nel regione centrale di Tete, nel distretto di Moatize (la cui parrocchia fa confine con la nostra di Charre) c’è il più grande giacimento a cielo aperto di carbone del mondo. Vi operano la Vale (brasiliana), la Rio Tinto (britannico-australiana) e la Icvl (indiana). Negli ultimi mesi sono entrate una compagnia degli Emirati Arabi e un’altra del Kazakistan.

Il Mozambico è ricco di legname pregiato. La maggior parte delle concessioni sono in mano ad imprese cinesi. È diretto in Cina il 93% del legname tagliato in Mozambico. Una Ong ha calcolato che il 49% sia tagliato illegalmente. Di questo passo nel 2029 termineranno le riserve commerciali di legname.

Il Mozambico è uno dei paesi africani che maggiormente sta subendo il fenomeno del land grabbing, letteralmente “accaparramento di terre”: grandi multinazionali dell’agrobusiness si appropriano, in connivenza con élites politiche locali facilmente corruttibili, di vasti appezzamenti delle terre più fertili, generalmente all’insaputa delle popolazioni autoctone che si trovano espropriate del bene primario di sussistenza. Nel settembre del 2009 i governi del Mozambico, del Giappone e del Brasile hanno firmato gli accordi per il ProSavana, un progetto controverso, elaborato e mantenuto sotto stretto segreto fino all’agosto 2011, quando un quotidiano brasiliano ha reso pubblica la notizia. Il ProSavana prevede l’acquisizione di un’area di 14,5 milioni di ettari nel nord del Mozambico da parte di imprese giapponesi e brasiliane dell’agrobusiness per impiantare la monocultura della soia, del mais, della canna da zucchero e del cotone: un progetto immenso che abbraccia 19 distretti di tre regioni diverse e dove risiedono quattro milioni di persone. I legittimi abitanti della terra rischiano di rimanere senza terra sulla propria terra. O, nella migliore delle ipotesi, di diventare manodopera a basso costo per le multinazionali del land grabbing. Come nel tempo coloniale. O peggio.

Nel frattempo l’economia mozambicana cresce. Negli ultimi anni, con un incremento annuo del PIL tra il 7% e l’8%, il Mozambico è diventato una delle tre economie dell’Africa sub-sahariana più attrattive per il mercato internazionale. Tuttavia questo non si materializza nel miglioramento delle condizioni di vita delle gente. Tra il 1996 e il 2003 la percentuale di popolazione sotto il livello dei povertà è diminuita dal 69% al 54%. Tuttavia negli ultimi dieci anni la percentuale è rimasta la stessa, mentre il numero assoluto dei poveri è aumentato di due milioni. In sintesi: una crescita senza sviluppo. Il PIL cresce, ma l’economia nazionale non è in grado di trattenere la ricchezza generata nel paese perché controllata dal capitale straniero. La ricchezza, in questo modo, va all’estero, mentre la popolazione continua affossata nella povertà.

Da un colonialismo all’altro. Da una dipendenza all’altra. Nel 1992, anno in cui terminava la guerra civile, Mia Couto, maggiore scrittore mozambicano vivente, metteva in bocca al veggente visionario, nella quart’ultima pagina del suo capolavoro “Terra Sonnambula”, le parole che seguono.

“I giorni che verranno saranno ancora peggiori. È per questo che hanno fatto questa guerra, per avvelenare il ventre del tempo, affinché il presente generasse mostri invece che speranza.  [...] Perché questa guerra non fu fatta per togliervi il paese  ma per togliere il paese da dentro di voi. [...] Vi hanno derubato fino al punto che neppure i sogni sono vostri. Niente della vostra terra vi appartiene. Ma anche il cielo e il mare saranno proprietà di estranei. Sarà mille volte peggio che il passato poiché non vedrete il volto dei vostri nuovi padroni ed essi si serviranno dei vostri fratelli per darvi il castigo”.

4. Dipendenze: vedere oltre.

Con le piene di gennaio, centinaia di famiglie che vivono nell’area di confluenza tra Chire e Zambesi hanno perso il raccolto della prima epoca. «Baba, chaka chino tinafa na njala». «Padre, quest’anno moriamo di fame». Parole pesanti. Ma pai Felix le diceva con il sorriso lieve sulla bocca. E non sono solo perché porta un nome così. Aveva già pronta la semente per la seconda epoca, sapendo che la terra, dopo la piena, sarebbe stata estremamente fertile. Ora sta raccogliendo i primi pomodori e tra pochi giorni sarà la volta del mais e del miglio.

Pai Felix porta la speranza nel nome e nel sorriso. A gennaio vedeva la fame davanti. Ma dentro la fame - in fondo alla fame - già vedeva quanto la terra e il lavoro delle proprie mani avrebbero prodotto nel raccolto di maggio. Pai Felix vedeva oltre. Pai Felix è membro delle Commissioni di Giustizia e Pace a cui abbiamo dato vita a partire da settembre dell’anno scorso. Pai Felix e gli altri 130 membri, che sono attivi in 53 delle 82 comunità che compongono la nostra parrocchia, sono piuttosto insofferenti alle dipendenze. Non si rassegnano allo stato delle cose che li vorrebbe dipendenti sulla terra che li ha visti nascere. E vedono oltre.

Vedere oltre. Ci proviamo. Lo stiamo facendo su due fronti. Il primo è quello del legname pregiato tagliato l’anno scorso da un’impresa cinese in un’area dove abbiamo sei comunità. In cinque mesi - quanto durava il tempo della licenza - i cinesi hanno scorrazzato con i loro camion portando via tutto quanto potevano tra chanfuta, pau ferro, ebano e panga-panga. Dove c’era la foresta ora c’è un deserto di polvere e desolazione. Il Mozambico ha una buona “Legge della Foresta e Fauna” che risale al 1999. L’ho procurata e l’abbiamo studiata assieme ai responsabili di Giustizia e Pace delle comunità interessate, traducendo in Chisena gli articoli principali. Abbiamo appreso che la comunità deve essere consultata prima che la licenza venga concessa. Che la comunità ha diritto al 20% delle imposte che l’impresa paga al Distretto e che questo 20% deve essere utilizzato per progetti sociali. Che il 15% delle imposte deve essere utilizzato per la riforestazione. Niente di tutto questo si era verificato fino ad allora. Così abbiamo pensato di organizzare una serie di incontri nelle nostre comunità per fare conoscere e divulgare la legge prima ai nostri cristiani e poi invitando tutte le persone interessate, al di là di appartenenze politiche o religiose. Il passo successivo è stato quello di convocare una assemblea nella chiesetta della comunità di Nkhuleche invitando i capi tradizionali, le autorità del governo locale e i pastori di altre chiese. «Fungula maso», «Apri gli occhi» è diventato il nostro motto in questi mesi. Per questo abbiamo cominciato l’assemblea pregando assieme e leggendo i versetti conclusivi del capitolo 21 di Matteo dove Gesù, uscendo da Gerico, apre gli occhi a due ciechi. Due è il principio di una comunità. Aprire gli occhi, farlo assieme, come comunità. Quel giorno, assieme agli occhi, si sono aperte anche le bocche. Al punto che una vedova si è alzata e, in mezzo al silenzio generale ha esclamato rivolgendosi al capo tradizionale, lo nyakwawa:  «Imwe mwatambira mota na achina!», «Tu hai ricevuto la moto dai cinesi!». Perché una cosa è saperlo, un’altra è avere il coraggio di affermarlo. Nei giorni successivi è stato costituito il Comitato di Gestione che, come previsto dalla legge, ha il compito di decidere, assieme alla comunità, le modalità di utilizzo del valore corrispondente al 20% delle imposte e che lo Chefe de Posto ha assicurato essere in dirittura di arrivo. All’interno del Comitato siamo riusciti a fare entrare due membri di Giustizia e Pace. Vedremo come andrà a finire. In ogni modo, dubito che la prossima licenza ai cinesi nella zona di Charre sarà concessa con tanta facilità come è accaduto.

Il secondo fronte è quello della terra, vale a dire l’area di 36000 ettari che una multinazionale indiana, in società con alcuni dirigenti della Frelimo locale (la Frelimo è il partito che, al potere da 40 anni, ha occupato lo stato, l’economia e la società mozambicana), sta sottraendo alla popolazione per impiantare la monocultura della canna da zucchero. Senza consultazione pubblica e senza indennizzo, come invece previsto dalla “Legge della Terra”.  Di questo si è ampiamente riferito nelle lettere precedenti. Ecco le novità. Le piene dello Chire e dello Zambesi, oltre che a sommergere i campi coltivati dalle famiglie, hanno anche distrutto buona parte della piantagione di canna da zucchero, danneggiando parte dei macchinari e rallentando notevolmente il ritmo di espansione del progetto. «Dio ha osservato la miseria del suo popolo, ha preso atto della sofferenza ed è sceso a liberarlo» afferma sorridente e compiaciuto il vecchio pai Bras, citando il libro dell’Esodo. A febbraio e poi ad aprile sono andato qualche giorno a Beira, prima per problemi alla macchina e poi per la nostra assemblea Saveriana. È stata l’opportunità per incontrarmi con gli avvocati e con la Commissione Diocesana di Giustizia e Pace. Per il momento abbiamo deciso di seguire la via diplomatica: dopo una riunione con l’Amministratrice del Distretto di Mutarara, quest’ultima ha accettato la proposta di porsi come soggetto mediatore tra le famiglie espropriate e l’impresa. Nel caso la via diplomatica non vada a buon fine, ricorreremo alla via legale con l’appoggio degli avvocati.

Con la luna nuova di aprile aspettavamo l’ultima pioggia prima dell’inizio della stagione secca. Niente da fare. Però, inaspettata, è arrivata una lettera dal Governatore della Provincia di Tete (quello che in Italia corrisponderebbe al Presidente della Regione). La lettera è partita - anonima - dalla cricca della Frelimo di Mutarara, che l’ha inviata al Governatore, il quale, per conoscenza, l’ha girata al nostro vescovo: si fa riferimento ad “una associazione della Chiesa Cattolica dal nome di Giustizia e Pace creata in Charre da p. Andrea di nazionalità italiana” e si aggiunge “che il suddetto padre durante le messe nel mese di marzo sollecitava la gente al cambiamento”.

Premesso che Giustizia e Pace esiste non solo a Charre, ma in qualsiasi parte del mondo dove esiste la Chiesa, ho dovuto fare mente locale per qualche attimo e pensare da dove avranno tirato fuori il paventato invito al cambiamento. Dando una occhiata alle mie omelie nel mio povero Chisena del mese di marzo, ho notato che marzo era tempo di Quaresima e, in effetti, parlavo di conversione e di cambiamento. Ma da qui ad arrivare fino al Governatore, mai avrei immaginato. È evidente che il lavoro che si sta portando avanti, sia in materia di legname pregiato che di terra sottratta alle famiglie, sta svelando affari opachi e interessi rilevanti conseguiti in maniera illecita nei quali sono coinvolti i dirigenti del partito. La Frelimo sta riproducendo a livello locale gli stessi meccanismi che sta mettendo in atto su scala nazionale. Le enormi ricchezze naturali del paese non sono una opportunità per ridurre la povertà e la disuguaglianza sociale o per garantire le condizioni minimali di un sistema educativo e sanitario decenti, ma diventano, invece, un ulteriore espediente di arricchimento personale e di soddisfazione della propria insaziabile ingordigia. Alla faccia dei poveri e di chi fa la fame. Quello che Giustizia e Pace sta facendo a Charre, come in tante altre parti del paese assieme ad altri soggetti della società civile, sta aiutando l’opinione pubblica a prendere coscienza del sistema di ingiustizia e di corruzione che regge il Mozambico e, forse, nel medio o lungo termine, a progettare una alternativa. Questo fa paura a chi detiene il potere che, percependo minacciati i propri interessi, reagisce con l’intimidazione. Proviamo a vedere oltre? Come pai Felix che, a gennaio, con i campi sommersi dall’acqua e dal fango, già immaginava il raccolto abbondante di maggio.

Per concludere: dipendenze doverose.

Dal 28 di luglio al 22 di ottobre sarò in Italia per le ferie. Sono partito tre anni fa. Quando il Presidente del Consiglio era Mario Monti, il presidente della Repubblica era un ex-comunista, il papa si chiamava Benedetto, il Presidente dell’Inter era italiano, il signor B. era ancora seduto sugli scranni del Senato della Repubblica, ma, soprattutto, quando ancora esisteva un Senato della Repubblica. Sembra un secolo fa. In questi tre anni, nelle lettere che ogni tanto ho mandato, credo di non avere mai parlato dell’Italia. Neanche quando Renzi, nel luglio dell’anno scorso, è venuto in Mozambico in viaggio d’affari, come portaborse di Finmeccannica - venuta a vendere armi ad un paese dove il 54% della popolazione vive sotto il livello di povertà - e dell’Eni - coinvolta in un sistema di corruzione per la concessione delle licenze di gas naturale ottenute nel Canale del Mozambico e indagata per avere evaso il fisco nella transazione attraverso la quale ha venduto parte delle concessioni alla compagnia petrolifera di Stato cinese. Non ho parlato dell’Italia di proposito. Volevo che queste lettere fossero una finestra su questo angolo di Africa. Ma una finestra aperta da questo lato. Non ho parlato dell’Italia, anche se ogni tanto ho avuto nostalgia. Nostalgie borghesi, come un caffè espresso al bar o un buon film al cinema. Non ho parlato dell’Italia, ma ci torno volentieri per alcune settimane.

Perché ci sono dipendenze che sono doverose e alle quali si deve essere fedeli. Quelle che ci tengono attaccati alla vita. A presto.

  • BABA ANDREA.


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