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Charre, 26 giugno 2014.

Premessa alle paure: privilegi.

Sono privilegiato. Mi sveglio alle quattro del sabato mattino e fino alla notte della domenica, quando il sole è ormai calato da un pezzo, vado a spasso per la savana. Così tutti i fine settimana, da aprile fino a novembre, quando - se il cielo ce la manda buona - ricomincerà la stagione delle piogge. A spasso per la savana. Senza tour operator, senza l’incubo di accodarsi pedissequamente ad una guida demenziale scritta per turisti occidentali, senza pacchetti viaggio preconfezionati per villeggianti equipaggiati di attrezzatura high-tech da safari e muniti di macchina fotografica con l’ossessione delle foto che dovranno esibire di ritorno dalle ferie.

1. Paure altre.

Sì, lo riconosco, sono proprio privilegiato. Imparo a conoscere questa fascia di terra di più di duecento chilometri di lunghezza, delimitata, ad est, dalla catena di rilievi rocciosi che fa da confine tra Mozambico e Malawi e, ad ovest, dalla riva sinistra dello Zambesi a monte della confluenza con lo Chire. Su questa fascia di terra si distendono le ottantadue comunità che compongono la nostra parrocchia. Gesù dice di andare a due a due. Generalmente noi andiamo in tre. C’è Cesare, missionario entusiasta che ha la stessa età di mia madre, conosce perfettamente la nomenclatura in Chisena di tutta la fauna e la flora autoctona, mangia cavallette ed è maestro nel fare il formaggio. C’è Serafino, sardo di nascita e milanese di adozione che dopo la morte della moglie, da cinque anni si è messo umilmente a servizio di questo popolo. E ci sono io, che a fatica riesco a comunicare nel mio modestissimo Chisena fortemente contraddistinto da un marcato accento da bassa mantovana, cosa più unica che rara da queste parti. Cesare ed io andiamo in due comunità a testa al giorno: cominciamo con un incontro per confrontarci su punti di forza, problemi e difficoltà; proseguiamo con l’Eucaristia. Negli occhi, nella danza, nel canto, nel ritmo potente delle mani sul tamburo c’è tutta la gioia di chi la vive due sole volte all’anno. Si finisce con il pasto, rigorosamente a base di nshima na nkhuku – polenta di miglio e gallina – seduti per terra e mangiato con le mani. Con Cesare e Serafino ci si ritrova di notte per dormire su una stuoia di paglia, sotto una capanna o dentro una chiesetta. Di sera si può essere colti dal timore più che ragionevole delle zanzare, che nei dintorni dello Zambesi sono plotoni di esecuzione spietati pronti al fuoco, mentre prima di coricarsi ci si può augurare di non svegliarsi alle due del mattino coperti di formiche, come mi è successo a Kampata quattro settimane fa. Certo, timori legittimi. Ma le paure, da queste parti, sono ben altre.

2. Paura di alzare la testa.

Verso nord. Due ore e mezzo per arrivare a Doa. Da qui si prende un sentiero le cui uniche ruote a percorrerlo, fino a prima di noi, sono state solo quelle delle biciclette. Tra terra arida, rocce, arbusti e pendii scoscesi si sale verso le colline in direzione Malawi. Nelle poche aree piane la gente coltiva miglio, sorgo, mais, sesamo e cotone. Il cotone è venduto in Malawi, perché il prezzo è migliore di quello offerto dalla “China – Africa cotton” che opera in terra mozambicana. Per evitare i controlli della guardia doganale si viaggia in bici, di notte, inventandosi cammini tra le colline rocciose. L’acqua scarseggia. Si scavano buche profonde nei ruscelli in modo da mantenerla anche nei mesi in cui non pioverà. Novembre e le sue sperate piogge sono lontani e già ora che siamo a giugno si beve acqua torbida. A Kadenga e a Chigumukire nessuno va a scuola. Chi si farebbe quindici chilometri a piedi di andata e altrettanti di ritorno ogni giorno? I cinesi hanno ricominciato quest’anno a tagliare legname pregiato: ebano, chanfuta, pau ferro, missano che fanno viaggiare sulla ferrovia del carbone. Avevano sospeso cinque anni fa perché, come dice la gente, erano arrivati al punto di tagliare anche i palitos, vale a dire gli stuzzicadenti. Hanno tutto il tempo di lasciare crescere le piante: la concessione dura cinquanta anni e non prevede alcun progetto di riforestazione. La vita qui fa pagare caro il suo conto. Così c’è chi tra queste rocce si è messo a cercare l’oro. Pare che ce ne sia. Vado nei villaggi di questa zona per tre fine settimana consecutivi, incontrando dodici comunità. Con mio grande stupore, mi accorgo che il telefono ha sempre rete. Sono ai confini del mondo, mancano acqua e scuola, il cibo scarseggia, si muore di malaria perché l’ospedale più vicino è a cinquanta chilometri da fare in bicicletta: che interesse economico c’è a garantire la copertura della rete in una zona scarsamente abitata e dove sono pochissimi ad avere il cellulare? Durante un incontro in una comunità, a distanza ascolto il rumore del treno del carbone ed ecco la risposta. Ogni giorno una media di quindici treni risalgono e riscendono i 575 chilometri della linea di Sena che da Moatize arriva al porto di Beira. Ciascuno è composto da 40 vagoni trainati da due locomotive e trasporta 2500 tonnellate di carbone. È in corso un ampliamento della linea di Sena che dovrebbe terminare il prossimo anno per fare spostare treni di 100 vagoni ciascuno trainati da sei locomotive. Carbone, legname, oro, cotone. Risorse che sono lì accanto. Risorse che stanno sotto terra. Risorse che passano in mezzo. Ricchezze che potrebbero appartenere alla gente che vive la terra. Invece questa stessa gente vive nella paura. La paura di denunciare i cinesi che impongono condizioni di lavoro disumane e che non indennizzano chi rimane infortunato o muore sul lavoro. La paura di rivendicare al Distretto il diritto alla salute, allo studio, all’acqua. La paura della polizia doganale che va in cerca dei contrabbandieri di cotone in bicicletta e lascia transitare impunemente autocarri carichi di legname pregiato il cui taglio è proibito. Forse non c’è la paura di osservare il treno del carbone. Fissandolo dalle proprie capanne, lo si contempla avanzare come fosse venuto da Marte, fino a che svanisce a distanza. Spettacolo da modernità industriale che attraversa un mare di ingiustizia. Il treno del carbone lo penetra. Poi, impassibile, prosegue il viaggio verso il suo pianeta. Mentre il mare di ingiustizia si richiude sempre identico a se stesso.

3. Paura di un dito puntato.

A Chigumukire arrivo una domenica mattina, dopo avere dormito nella chiesetta di Kadenga. Le mamme hanno già acceso il fuoco e stanno preparando la carne di capra per il pranzo della comunità. Nell’incontro emergono l’entusiasmo ma anche la fragilità di una comunità che ha soli cinque anni. Negli ultimi quattro mesi la comunità non si è riunita perché lo tsogoleri – letteralmente “colui che sta davanti”, il responsabile – aveva trovato un lavoro temporaneo altrove. Neppure si è fatta Pasqua. Nonostante tutto celebriamo una Eucaristia viva, sotto una capanna ben costruita. Dopo il pranzo, lo tsogoleri – Aloni, venticinque anni, uno dei pochi uomini non poligami e che sa leggere e scrivere - si avvicina comunicandomi di essere pronto per il battesimo e per il matrimonio, dato che ha seguito la formazione della comunità vicina. «Molto bene – concludiamo – allora ci vediamo ad agosto». Noto che tergiversa, come se avesse timore ad aggiungere altro. «Padre André, vede la capanna dove abbiamo pregato? Ecco, non è la nostra: l’abbiamo chiesta in prestito ad una chiesa pentecostale». «Come mai?», chiedo meravigliato. Con l’aria distesa di chi è riuscito a levarsi un peso dalla coscienza, risponde finalmente sereno: «Beh, è che nella nostra sono entrati gli spiriti». A mãe Lucinda abbiamo detto arrivederci il primo di maggio. Aveva 23 anni, teneva la sua vita e un’altra vita dentro il grembo. Il giorno prima, alle sei del mattino, mentre stiamo cominciando la preghiera, chiamano da fuori. È il marito che ci chiede di accompagnare in macchina la moglie all’ospedale di Muturara. Sono 15 chilometri di strada sterrata pessima piena di buchi. Mãe Lucinda deve partorire e il marito si rende conto che non è nelle condizioni di essere caricata sul portapacchi della bicicletta, come fanno tutti. Cesare parte immediatamente. All’ospedale di Mutarara, la vita che porta in grembo nasce senza vita, mentre mãe Lucinda muore poco dopo. Il giorno dopo mãe Lucinda è dentro una bara di pochi assi coperti da un lenzuolo bianco. Semplice e povera come la capanna che la accoglieva fino a poche ore prima. Al funerale ci sono tutti. Vuoi per affetto, ma vuoi anche per paura. La paura di essere accusati della morte di mãe Lucinda. Dopo la preghiera lo saphanda – il capo villaggio – prende la parola: «Mãe Lucinda era giovane, stava bene fino all’altro ieri e non aveva mai avuto problemi. Sappiamo tutti cosa è successo. Invito i presenti a segnalare tutti coloro che non hanno partecipato a questa cerimonia». “Segnalare” in Chisena è kuthonya, che sginifica anche “indicare, puntare il dito”. Si indicano le persone assenti, perché sono coloro che potrebbero avere avuto qualche ragione per volere la morte della persona defunta e potrebbero averla provocata attraverso gli mizimu yakuipa, gli spiriti malvagi. Sarà poi compito dello ng’anga individuare il colpevole tra gli “indicati”. Cesare chiede di nuovo la parola e conclude: «Kuthonya, thangwi yanji? Towera tiende pontho ku maliro anango?». Che significa: «Indicare, per quale motivo? Per andare ancora ad un altro funerale?». E tutti tornano verso casa. Accompagnati dalle proprie paure.

4. Paura di stare sulla propria terra.

36.000 ettari non sono poco cosa. Corrispondono ad un rettangolo che ha un lato di 40 km e l’altro di 9. È la superficie che un’impresa indiana che opera nel settore dei diamanti ha chiesto al governo mozambicano per coltivare canna da zucchero nell’area compresa tra la strada che sta a cinquanta metri da casa nostra e il fiume Chire. Dai diamanti alla canna da zucchero: in questi tempi di crisi economica globale e di flussi imprevedibili di capitale, pare sia bene diversificare i propri investimenti. Fino ad ora il governo mozambicano ha concesso 20.000 ettari. Gli altri si stanno negoziando. All’insaputa di chi la terra la vive e la lavora. Un anno e mezzo fa erano venuti a Charre i rappresentanti dell’impresa e quelli del Distretto. «L’impresa porterà lavoro e benessere per tutti», fu detto al comizio pubblico. La Legge della Terra prevede che si compiano almeno due consultazioni pubbliche, coinvolgendo tutte le persone che lavorano la terra interessata, col fine di vagliare il loro consenso o dissenso. Le consultazioni non si fecero. I capi villaggio ricevettero la moto, furono invitati ad un lauto pranzo e apposero le firme a nome di tutti. Poche settimane dopo cominciarono ad essere posti blocchi di cemento come segnali di demarcazione in mezzo alla terra lavorata dalla gente. Mi avevano parlato del progetto della canna da zucchero ancora quattro mesi fa, appena arrivato a Charre, ma nessuno conosceva i dettagli: chi era l’impresa, quanti ettari, per fare cosa. Anche al Municipio e al Distretto di Mutarara, tutti con la bocca cucita. Il 15 ottobre ci saranno le elezioni e nessuno ha voglia di perdere il posto. Così, a fine maggio, passo tre giorni a Nyangoma – dove vive Serafino, a 30 km da Charre e posta geograficamente al centro del progetto – con l’obiettivo di reperire informazioni. E mi va bene. Il secondo giorno, dopo tre ore di jeep tra savana incolta, capanne sparse e campi coltivati incontro prima alcuni appezzamenti di canna da zucchero e, poco più avanti - in un luogo incantevole sulla riva dello Chire e alle pendici del monte Morrumbala che si erge imponente subito oltre il fiume – una tenda, una jeep nuova di zecca e un signore seduto ad un tavolo con il suo portatile. Conosco così l’ingegnere agronomo che sta seguendo il progetto. Mi presento come: «Padre della chiesa cattolica arrivato da poco. Sto conoscendo le comunità e mi hanno informato di un interessante progetto che darà lavoro a molta gente del posto». Cosa ci si inventa a volte... Gentilissimo, l’ingegnere mi accompagna a visitare il progetto pilota di produzione della semente, mentre mi dà tutti i ragguagli che cercavo. Dopo l’esperienza di difesa della terra di Dondo andata a buon fine, stiamo cominciando a formare anche qui a Charre le commissioni di giustizia e pace nelle nostre comunità. Iniziamo a partire dalle comunità che rientrano nell’area interessata dal progetto della canna da zucchero. Sono i primi passi, vedremo cosa si riuscirà a fare. L’importante è farlo assieme con la gente. Prima di tutto bisognerà cercare di aprire gli occhi, per poi aprire la bocca. Prendere coscienza – assieme – dello stato delle cose. Comprendere che, come popolo, si ha voce in capitolo e non si possono subire passivamente le decisioni che vengono dall’alto. Vincere la rassegnazione e il complesso di inferiorità. Sapere che esistono una legge e dei diritti. Questa stessa legge è stata impunemente violata perché non sono state compiute le consultazioni pubbliche. E questo abuso di potere da parte del governo locale, in connivenza con l’impresa straniera, è un punto di partenza notevole sul quale potere lavorare. Intanto la gente ha paura. Paura di stare sulla propria terra. È appena terminata la stagione del raccolto. A testa bassa, ci si chiede: «Quanti altri potremo farne ancora?». Per finire con le paure: paure liberate Il lunedì è il giorno del tempo rallentato. Cesare è maestro nel fare il formaggio e ha ora trovato un discreto discepolo. La mattina ci portano cinque litri di latte appena munto. Cesare custodisce gelosamente il caglio che gli ha dato suo cugino Gianni, proprietario di un agriturismo sulle colline di Vicenza. Così riusciamo a produrre una forma di formaggio che sta nel palmo di una mano. Il formaggio riesce sempre ottimo, ma non ha nome specifico dato che, ogni volta, gusto, consistenza e aspetto risultano differenti dalla volta precedente. E, cosa sorprendente, tutto questa pluralità di varietà avviene senza intenzionalità previa. Dopo pranzo e dopo la puntuale telefonata di mia madre e mio padre, i piedi vanno in direzione delle montagne dietro casa e si portano dietro testa e cuore, che a loro volta si portano dentro un vortice di vita, che a sua volta si porta dentro i volti delle persone incontrate durante la settimana appena trascorsa, che a loro volta si portano dietro le loro storie, paure, sofferenze, lotte, gioie e speranze. Questo lunedì di principio di inverno, con gli alberi che stanno lasciando cadere le foglie, rapidi a seguire il bao-bab che le ha già perse da un pezzo, con la pianura dello Chire là in basso trasformatasi in un tappeto giallo, con un cielo grigio di nuvole portate a spasso da una brezza lieve, risalgo il letto di un torrente in secca e sento il peso delle paure degli altri. Un raggio di sole taglia il grigio del cielo. Dalla testa e dal cuore affiora kunja kwakumasuka, espressione che mi aveva incantato quando pai Emilio - padre di sette figli, contadino, allevatore di vacche e mio maestro di Chisena – me l’aveva spiegata qualche giorno fa e che significa «fuori si è aperto». Kumasuka è il verbo del cielo che si apre e che si libera dopo la pioggia. Ma non solo. Munthu wakumasuka è infatti «la persona libera». Perché un cielo che si apre dopo la pioggia è come un uomo liberato dalle nuvole delle sue paure.

Spirito che sei vento, soffia via le nuvole delle nostre paure e fai volare le nostre coscienze liberate. Così sia.

  • ANDREA FACCHETTI.


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