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Charre, 14 aprile 2014.

1. Corrispondenze non pervenute.

Qui l’energia elettrica non è ancora arrivata. L’hanno fermata a Bawe, il villaggio otto chilometri prima. Qui nella savana, appena sotto il diciassettesimo parallelo dell’emisfero australe, il sole conosce poco le stagioni e alle diciotto o giù di lì, rapido e puntuale durante tutto il corso dell’anno, scivola dietro le colline scavate nei millenni dalla forza delle acque del grande fiume Zambesi. Qui la notte porta a casa la gente dalla campagna, porta reggimenti di zanzare che sembrano cacciabombardieri pronti a sganciare, porta le vacche nei recinti, porta il buio illuminato dai fuochi accesi a fianco delle capanne, porta il silenzio cadenzato dal battito ritmico delle mani sul tamburo. Ma, soprattutto, porta un cielo vasto da vertigine. Vertigine perché - eccetto la croce del sud, lì in piedi sul lato sinistro della via lattea australe – sono sovrastato da una distesa di stelle alle quali non ho ancora imparato a dare un nome. Naturale cercare corrispondenze con il cielo dell’emisfero boreale, ma niente da fare. Perduto. Di nuovo vertigine. Vertigine da corrispondenze siderali non pervenute.

2. Corrispondenze mutate.

L’intestazione di questa lettera non corrisponde a quella della lettera precedente. Il “qui” non è il “qui” Chemba, ma è il “qui” Charre. E non è un “qui” di passaggio. P. Janvier, è infatti tornato a Chemba perché la guerriglia in Congo, suo paese di origine, pare essere terminata e così a me è stato chiesto di integrare la comunità di Charre che da più di due anni aspettava un padre. Dai primi di marzo sono quindi a Charre assieme a p. Cesare e a p. Justin. A Dio piacendo, questa dovrebbe essere la mia destinazione definitiva. Almeno per qualche anno. Un nuovo inizio, non è la prima volta: di nuovo ricominciare a conoscere i volti e le storie di vita che i volti si portano dentro, ricominciare a tessere le relazioni, ricominciare ad imparare le strade per arrivare alle comunità memorizzando i punti critici per non rimanere impiantato con la jeep, ricominciare a cercare i luoghi dove trovare silenzio. In ogni modo, mettere radici costa meno che tagliarle. Delle quattro comunità che come Missionari Saveriani abbiamo in Mozambico, forse questa è la meno facile (non dico difficile, perché significherebbe non riconoscere che siamo presi per mano): isolata per quattro mesi durante la stagione delle piogge, secca e povera durante il resto dell’anno, altra regione e altra diocesi, 82 comunità da incontrare almeno due volte all’anno e fino a più 200 km di distanza su strade sterrate pessime. Ma va bene così, io mi trovo benissimo. Charre è terra arida in mezzo a due grandi fiumi, in linea d’aria equidistante circa una ventina di chilometri da entrambi: a ovest lo Zambesi e a est lo Chire, che nace dal lago Niassa per gettarsi proprio nello Zambesi poco distante da qui. Charre è villaggio di capanne sparse a ridosso della strada sterrata che porta a nord, in Malawi. Per raggiungere alcune nostre comunità dobbiamo attraversare la frontiera - che è a poco meno di venti chilometri - per poi rientrare in territorio mozambicano. Charre è la vasta pianura dello Chire, con il monte Morrumbala che si erge imponente a distanza. Charre è anche terra di colline ripide in prossimità dello Zambesi: in mezzo ad alberi secolari – sembrerà strano, ma i cinesi non sono ancora passati di qui – la gente ha ritagliato i suoi campi coltivati a miglio, sorgo e mais, che resistono perché i raggi del sole arrivano più obliqui che in pianura e la montagna trattiene l’umidità necessaria. Charre è terra di capre, ma la regina qui è la vacca. La vacca è certezza matematica di sopravvivenza: una famiglia che ha una vacca, può fare un pessimo raccolto per causa della siccità, ma non fa la fame. I commercianti vengono da Tete, da Beira e da Quelimane per rivenderle nei mercati in città. E una vacca può valere fino a tredici mila meticais, cioè il salario di tre mesi di un maestro elementare. In tempi di guerra fredda, il Mozambico divenne campo di battaglia di giochi di potere folli decisi altrove: da una parte il blocco comunista, dall’altro quello occidentale. Nei sedici anni di guerra civile (1976-1992), migliaia di mozambicani passarono da Charre, sulla strada polverosa a trenta metri da casa nostra: dei cinque milioni di profughi, la gran parte cercava rifugio in Malawi e questo di Charre era il canale di fuga principale. I villaggi venivano abbandonati: chi aveva parenti scappava in città, altrimenti fuggiva oltre il confine. Di coloro che scelsero di rimanere, un milione furono uccisi. Anche Charre, in quegli anni rimase deserta. E i missionari che erano qui allora, per amore del popolo assieme al quale avevano già camminato nella lotta contro il regime coloniale portoghese, decisero di nuovo di non abbandonarlo, ma di condividere assieme la medesima sorte di profughi. Dal Malawi tornavano di nascosto, rischiando la vita, per non perdere le relazioni con chi aveva scelto di rimanere e aveva cercato nascondiglio nello isole situate nella confluenza tra lo Zambesi e lo Chire. Questo popolo, dopo più di venti anni, non dimentica i nomi, i volti e le storie di chi ha scelto di fare un pezzo di strada assieme.

3. Corrispondenze non corrisposte.

Per arrivare a Charre si attraversa lo Zambesi e si va verso nord. Altra regione: da Sofala si entra in quella di Tete, che prende il nome dalla omonima città capoluogo. La regione di Tete è una delle più povere del Mozambico: realtà prettamente rurale – dove “rurale” vuol dire zappa (e solo zappa) - caratterizzata dalla scarsità di pioggia; strade pessime, comprese le arterie principali che portano a Tete, che sono asfaltate solo in parte; tutti i distretti e i municipi amministrati dalla Frelimo, con un sistema clientelare capillare e corrotto da cima a fondo; villaggi sperduti, distanti da scuole e ospedali, con conseguenti tassi estremamente elevati di mortalità infantile e di analfabetismo. È vero che la regione di Tete è povera, ma è anche vero che la regione di Tete è ricca. Anzi, ricchissima. Nel 2008 alcuni geologi fecero una scoperta sorprendente: nel distretto di Moatize, a 30 km da Tete, si trova la maggiore riserva di carbone del pianeta ancora non sfruttata, con i suoi 23 miliardi di tonnellate di carbone. Così, dopo pochi anni, Moatize è oggi la maggiore miniera di carbone a cielo aperto del mondo. Le due maggiori concessioni sono in mano alla brasiliana Vale e alla britannico - australiana Rio Tinto. Si stanno ora svegliando anche cinesi e indiani, economie in forte crescita e in cerca di fonti di energia. Inoltre, ci sono tecnici provenienti dall’Africa del Sud, imprese di costruzione portoghesi, altre statunitensi specializzate nel commercio di macchine pesanti. Ci sono tutti. Eccetto che mozambicani. Le duemila famiglie del villaggio di Moatize sono state “delocalizzate” nel villaggio di Cateme, a 40 km di distanza da Moatize in mezzo al niente e sono ancora in attesa di una parte dell’ indennizzo che le multinazionali giurano di avere dato al governo mozambicano e che pare abbia preso altre poco chiare destinazioni. E anche la maggior parte delle attività economiche generate dalla corsa al carbone sono gestite da imprese straniere: ad esempio, gli stessi alimenti forniti ai lavoratori delle imprese multinazionali, sono inviati in aereo da Johannesburg. Si potrà pensare che se non ci sono ricadute dirette sull’economia locale, ci potranno essere benefici per l’economia del paese almeno a livello macroeconomico nel lungo periodo. Niente da fare. Per favorire l’afflusso di capitale di investimento, il governo mozambicano ha ingenuamente concesso condizioni generosissime in termini di riduzioni fiscali. Ad esempio si calcola che le riduzioni fiscali a tre grandi multinazionali (Fortune 500 BHP Billiton, Vale, Andarko) sottraggano alle casse del paese, 500 miliardi di dollari, pari al 4% del PIL del Mozambico. Il Banco Mondiale afferma che il Mozambico – nonostante un PIL al 7,5% - continuerà a rimanere uno dei paesi più poveri dell’Africa Australe se non modificherà i regimi fiscali concessi alle grandi multinazionali del carbone e del gas naturale (l’italianissima Eni in testa) e non reinvestirà tali proventi in aree quali educazione, sanità, agricoltura e infrastrutture. E a dirlo è il Banco Mondiale, baluardo del capitalismo ultraliberista, nonché principale detentore del debito pubblico mozambicano. Ricchezza di una terra a cui non corrisponde la vita e il bene di chi qui è nato ed ha il diritto di viverci da umano e non da sfruttato. Corrispondenze non corrisposte, esito evitabilissimo di un sistema economico ingiusto e di un impoverimento pianificato a tavolino.

4. Corrispondenze improbabili.

Sono arrivato a Charre all’inizio dello Ndzidzi ya Ntsiku Makumanai, letteralmente “il periodo dei quaranta giorni”, vale a dire la Quaresima. Il colore liturgico della Quaresima è il viola. Il colore viola, presso il popolo Sena, esiste come concetto, perché il viola si dà nella realtà, ma non esisteva come parola. In maniera molto icastica, per dare un nome al concetto del viola, si è coniata l’espressione “Nsuzi ya nyemba”, che significa “il bruciato dei fagioli”. Con uno sforzo di immaginazione notevole, i fagioli bruciati possono avere un colore che vagamente ricorda il viola. Però, almeno, il concetto di viola esiste. Più problematica è invece la questione del digiuno – uno dei pilastri del tempo di Quaresima – che, presso il popolo Sena, non esiste neppure come concetto. Del resto, è difficile solo pensare il concetto di digiuno in una realtà dove la fame è problema endemico quotidiano e dove per dire “grazie” si dice “takhuta”, verbo al quale si ricorre alla fine del pasto per esprimere la sazietà e che comunica la pienezza della gioia nelle sue molteplici dimensioni. Ecco allora che per rendere una parola come il digiuno, della quale neppure esisteva il concetto, si è coniata l’espressione “nyatwa ya njala”, che letteralmente significa “sofferenza della fame”. In effetti, è difficile negare che la decisione deliberata e volontaria di non mangiare, in un contesto dove l’assenza del mangiare è preoccupazione reale, non sia una sofferenza. Pensavo a questo la prima domenica di aprile, tornando da una comunità, sotto sera e sotto un cielo plumbeo, con la jeep che slittava allegramente nell’ultimo fango di una stagione delle piogge magra prossima al termine. Nelle settimane precedenti, non mi ero neppure lontanamente azzardato a cercare corrispondenze improbabili parlando alla gente del colore liturgico viola o del digiuno.

Conclusione - Corrispondenze trovate.

La bellezza del Vangelo di Gesù è vasta come la distesa di stelle a cui non sappiamo dare il nome. Quando dobbiamo raccontarlo  agli altri, cerchiamo appiglio nelle poche certezze che ci portiamo dentro e ci ancoriamo alle poche stelle conosciute. Questo è normale e forse è anche bene. Però può essere un pericolo, perché si corre il rischio di bloccarsi lì e di accomodarsi. Forse per pigrizia mentale, o per carenza di fantasia, o forse per quella prigione  che ci intrappola impotenti e che si chiama paura, oppure per il poco coraggio di prendere il largo nel mondo dell’altro. Così facendo ci rendiamo incomprensibili, oltre che, probabilmente, ridicoli. Gesù cercava corrispondenze con la vita quotidiana vissuta dalla gente del suo tempo: ai pescatori parlava delle reti e dei pesci, ai pastori delle pecore, ai contadini della semente gettata nel campo, agli esattori del denaro, alle donne della farina e del lievito, ai padri delle decisioni dei figli. A tutti parlava della vita vissuta. Dicevo a me stesso, quella medesima domenica, a notte ormai calata e prossimo a casa: «Caro Andrea, quanto hai da camminare sul sentiero delle corrispondenze!». E  su quel sentiero -  che è il sentiero di un popolo che mi accoglie – togliere i sandali delle mie certezze per cercare corrispondenze con la polvere e il fango della strada, con la fatica di giorni interi a zappare sotto il sole, con il profumo della polenta di miglio ancora bollente intinta nei fagioli, con l’ingiustizia della propria terra venduta alle multinazionali della canna da zucchero, con il tramonto sullo Zambesi nelle sue infinite gradazioni dal giallo al rosso, con la storia di una madre che deve tirare avanti dopo che il marito ha preso la seconda moglie, con la rassegnazione di Zacarias che deve pagare sottobanco se non vuole essere bocciato, con l’attesa trepidante della pioggia che quando arriva dona vita alla terra, con il volto felice di chi torna dalla campagna con il frutto del proprio lavoro caricato sopra la testa e un figlio neonato addormentato avvolto alla schiena.

Trovato. Di nuovo vertigine. Vertigine da corrispondenze di vita vissuta. Questa volta, pervenute.

ANDREA FACCHETTI.



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