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NOTE DA UN VIAGGIO IN CONGO

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Ritorno tra i miei. Non ho programmi; vivo il dono di essere fratelli e sorelle. La distanza non cambia i legami di vera amicizia. Conosco qualcosa della loro sofferenza, soprattutto la guerra che genera dolore, fame, insicurezza, diffidenza. Attraversando il Rwanda osservo come dai ceppi degli alberi tagliati si alzano alti nuovi tronchi, un segno di speranza.

Arriviamo a Goma. Sono sorpreso. Dopo due anni dall’eruzione del vulcano, la vita è ripresa a pieno ritmo. Le costruzioni si sono moltiplicate, le strade sono affollate, l’incontro con gli amici e le nostre comunità è una vera festa. Il Paese, dopo gli accordi di pace, sta vivendo la transizione, il periodo di preparazione alle elezioni.

Si respira l’attesa sofferta di pace vera. Nonostante tutto la gente continua a sperare, è protesa in avanti. Qui i motivi della guerra sono molto chiari.

I trasporti di cassiterite, di coltano, di oro sono davanti agli occhi di tutti. L’aeroporto è nel cuore della città, così purtroppo, il traffico delle armi.

Un amico, angosciato mi racconta il dramma della sua zona occupata dai soldati (Rcd), alleati con il regime di Kigali. Nyabyondo è il nome del suo villaggio, sulla strada di Walikale dove si trovano cassiterite, oro, coltano; gli abitanti coinvolti nella vicenda sono più di 50.000.

Un elenco di 52 morti circola nella città di Goma, ma i morti non si contano. I nomi dei responsabili di quanti traggono profitto dalla guerra sono noti. I rapporti degli esperti dell’Onu denunciano anche il Rwanda e l’Uganda, Paesi confinanti, di esportare prodotti e minerali tre o quattro volte più di quanto non producono. Quattro milioni di morti La guerra di questi anni, che ha causato la morte di 4 milioni di persone, ha risvegliato, con meraviglia dei rappresentanti degli organismi internazionali, una forte coscienza nazionale. Ma non è ancora la pace. Di fatto, il controllo della città e di tutti i posti di responsabilità (dogana, Esercito, trasporti, miniere, sicurezza, ecc.) è nelle mani del gruppo politico alleato con il regime di Kigali. Ma le etnie della città sono tante; solo la giustizia e il dialogo potranno condurre alla pace.

Mi colpisce la fierezza con cui la gente racconta quanto è avvenuto a Kanyabayonga: il rifiuto degli aiuti umanitari, coperte e viveri, da parte degli sfollati dopo gli scontri tra i soldati governativi e le truppe dell’ Rcd di Goma appoggiate dai ruandesi. “Abbiamo i nostri campi e mani per lavorare – hanno detto – ritirate i vostri soldati e sarà la pace”. Mi dicono che il generale Tangofort Amisi abbia ricevuto il mandato di organizzare il brassage, ossia la riunificazione sotto un solo comando dei vari gruppi militari: governativi, Rcd, miliziani, may-may.

Tutti desiderano e chiedono la costituzione di un Esercito e una polizia nazionale. L’impresa non è facile, particolarmente nella provincia del Nord-Kivu dove continua, con l’appoggio del gruppo locale al potere, un’occupazione strisciante, voluta, secondo Kigali, dal resto dei miliziani hutu che parteciparono al genocidio ruandese del ’94. Le forze dell’Onu Sono presenti anche i soldati dell’Onu. Rappresentano un contrappeso nello scacchiere complesso della regione. Ho visto l’accampamento, i blindati, l’elicottero che sorvola sulla zona. Ho sentito i commenti sfiduciati della gente che li vede come un peso morto o peggio compromessi nel traffico delle ricchezze. Credo sia doveroso ripensare la missione Onu considerando i milioni di dollari che, ogni giorno, la comunità internazionale investe nei Paesi dei Grandi Laghi (Congo, Rwanda, Burundi), sia con gli aiuti ai singoli Paesi, come per il dispiegamento delle Forze armate.

Più che sulle armi, è necessario investire seriamente sulla mediazione tra i diversi gruppi con una presenza autorevole di persone capaci e competenti per facilitare l’incontro e il dialogo tra le forze vive del Paese, società civile e confessioni religiose, rappresentanti politici e militari, per ascoltare le aspirazioni della gente, e soprattutto per affiancare la preparazione delle elezioni, aiutando la normalizzazione dell’amministrazione (salari compresi) dei servizi per il bene comune, Esercito, polizia, insegnanti. Metà della spesa attuale dell’apparato militare Onu potrebbe essere investito nell’azione preventiva per la pace rispondendo alle attese della gente, alle forze vive del Paese e agli impegni assunti dal governo di transizione.

Un sogno? Eppure solo la strada della collaborazione, del riconoscimento della dignità di tutti può aprire a un futuro di pace.

 P. SILVIO TURAZZI, Parma.



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