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NON ESSERE PADRONI DEL PROPRIO DESTINO

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Se individuare gli Stati falliti non è complicato, meno semplice può essere stabilire se un paese, formalmente autonomo e indipendente, lo sia anche nella sostanza. Del resto, in un mondo globalizzato chi può dire di essere “padrone a casa propria”? Gli organismi sovranazionali, le sfere d’influenza, le relazioni politico-diplomatiche, le convenienze o gli obblighi economici ci rendono un po’ tutti “paesi a sovranità limitata”. È forse una delle cifre più caratteristiche di quest’epoca. Eppure, nel continente africano, esistono parecchi Stati che non sono padroni del loro destino. Un criterio oggettivo per identificarli può essere, ad esempio, individuare le missioni internazionali in corso, onusiane o multilaterali: se un paese è costretto a chiedere o accettare truppe straniere sul proprio territorio, qualcosa nella sovranità nazionale non funziona.

LA SOVRANITÀ DEBOLE

Le missioni delle Nazioni Unite sono di due tipi: di peacekeeping e politiche. Su 14 missioni di peacekeeping attive nel mondo, otto sono nel continente africano. Basta questo dato per localizzare i paesi più in difficoltà: Centrafrica, Congo RD, Sudan (dove sono presenti due distinte missioni, in Darfur e ad Abyei), Mali, Somalia, Sud Sudan e Sahara Occidentale. Quest’ultimo e la Somalia sono situazioni limite, che vanno ben oltre la definizione di “Stato a sovranità debole”. Resta invece una qualifica calzante per gli altri paesi elencati.

A questi potremmo aggiungere gli Stati in cui l’Onu è presente non con una missione di peacekeeping o peace enforcing, ma con una presenza politica. Qui, su 28 missioni nel mondo, 14 sono in Africa: alcune nei paesi già elencati, a rinforzo dei caschi blu (Centrafrica, Sahara Occidentale, Somalia, due in Sudan); altre in sedi di rappresentanza, come quella presso l’Ua; altre ancora si occupano di un’area geografica più ampia (Grandi Laghi, Corno d’Africa, Africa occidentale e Sahel, Camerun-Nigeria); e poi ci sono le missioni in paesi a rischio, magari dove i caschi blu hanno concluso il lavoro ed è rimasta attiva una missione politica. Come Burundi, Guinea-Bissau, Mozambico. E infine la Libia, di cui ci occupiamo a parte in questo dossier.

CONGO RD

Narra un’antica leggenda che Dio, dopo aver creato il mondo, lo percorreva a piedi, con un sacco colmo di ricchezze da distribuire sull’intero pianeta. Giunto in Congo, però, inciampò. E il sacco pieno si rovesciò.

L’immagine rende in maniera efficace la situazione di un paese straricco e per questo condannato alla povertà e mancanza di sovranità: un enorme coacervo di interessi soffoca da tempo le aspirazioni di autonomia del Congo RD, gigante coi piedi d’argilla. Interessi occidentali, cinesi, mediati spesso e in maniera anche autonoma dal confinante Ruanda: il piccolo paese manovra la politica congolese da oltre vent’anni, in maniera più o meno sotterranea e ormai anche senza sottostare agli interessi delle superpotenze. 

Il Ruanda è il tipico esempio di Stato dalla sovranità forte, talmente forte da andare per la propria strada incurante delle norme e convenzioni internazionali. Ricorrono quest’anno i dieci anni dall’uscita del Rapporto Mapping delle Nazioni Unite, che documentava centinaia di violazioni dei diritti umani nell’est del Congo RD ad opera di miliziani manovrati da oltre confine.

OSTAGGIO POLITICO DEL RUANDA

La longa manus di Kigali è stata e resta un personaggio chiave della politica congolese e ruandese: James Kabarebe. Di nazionalità ruandese, entrato in Congo RD nel 1996 con Laurent-Désiré Kabila e i ribelli dell’Afdl, in cui era capo militare strategico, divenne capo di stato maggiore in Congo RD dal 16 maggio 1997 fino al 16 luglio dell’anno successivo, quando Kabila lo allontanò. Cacciati dal paese a fine luglio, i militari ruandesi il 2 agosto davano il via alla “ribellione” del Congo RD.

Rientrato in Ruanda, Kabarebe ha assunto il ruolo di capo di stato maggiore e poi di ministro della difesa, dal 2010 al 2018, e resta tutt’ora uno degli uomini chiave del regime di Kagame. Che io sappia, l’unico caso al mondo di un uomo che sia stato capo di stato maggiore in due diversi paesi. Rientrato in Ruanda, ha comunque lasciato uomini di fiducia nell’esercito, nella politica e amministrazione congolese.

Lo stesso Joseph Kabila ha iniziato il servizio militare sotto la protezione di Kabarebe e da sempre la sua presidenza è stata sospettata di agire di concerto con i “nemici” oltre confine. Oggi, il Congo RD è guidato da Félix Tshisekedi, eletto con una coalizione anti-Kabila, ma ostaggio di un parlamento dove l’ex presidente si è assicurato una maggioranza schiacciante.

In questo panorama, non vanno ignorate le tante potenze mondiali che giocano e hanno giocato un pesante ruolo nella politica congolese, per la gestione delle immense risorse del sottosuolo: Stati Uniti, paesi europei, Cina. Ciascuno, con metodologie diverse, ha cercato di assicurarsi una fetta della torta, giocando anche sui rapporti con Kigali. Va precisato che non si tratta sempre di politiche governative, ma anche di interessi e manovre di gruppi multinazionali. Sta di fatto che il piccolo ma potente Ruanda – a proposito di sovranità – ha imparato a usare a proprio vantaggio gli interessi occidentali, ma anche a non piegarvisi, mandando bellamente a quel paese le somme istituzioni mondiali quando sono arrivate accuse di violazione dei diritti umani. L’esempio perfetto di una sovranità autarchica e impositiva, che per difendersi e rafforzarsi ulteriormente non si fa scrupolo di irridere persino le leggi internazionali.

SUDAN E SUD SUDAN FRATELLI COLTELLI

Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo. Va da sé che sia presto per parlare di reale autonomia. Da quando è nato, nel 2011, è stato in quasi perenne guerra civile: è purtroppo facile comprendere che la sovranità sia un obiettivo ancora lungi dall’essere conquistato.

Il referendum per l’indipendenza dal Sudan era passato con percentuali bulgare (98,83 per cento), facendo sperare in un processo sereno e costruttivo. Ma nel 2013 il conflitto fra le due etnie maggioritarie, dinka e nuer, è deflagrato in una guerra fratricida. La situazione resta tesa, le difficoltà economiche enormi, la dipendenza dall’estero elevata.

Il Sudan del dopo Bashir (il dittatore rovesciato lo scorso anno da enormi manifestazioni di piazza), per quanto vi permangano due distinte missioni Onu, pare invece avviato verso la democratizzazione. Uscito ora dalla lista nera dei paesi terroristi, su cui era stato inscritto dagli Usa, si è in automatico visto togliere anche le sanzioni, fatto che di certo agevolerà la normalizzazione. Le presenze Onu restano nell’instabile regione del Darfur e nel distretto di Abiey, sul confine fra Sudan e Sud Sudan e la cui popolazione in grande maggioranza vorrebbe passare a quest’ultimo Stato. 

Nel 2008 esplosero scontri che devastarono la città e provocarono 50mila sfollati. Un referendum per l’autodeterminazione è stato rimandato sine die. Nel 2013 la popolazione ha organizzato una consultazione informale, dalla quale è emersa la schiacciante maggioranza di voti per il passaggio al Sud Sudan. È chiaro dunque il motivo della permanenza di una missione delle Nazioni Unite sul posto.

CENTRAFRICA IN CERCA D’IDENTITÀ

Eterna minorenne, la Repubblica Centrafricana è forse la cenerentola fra tutti gli Stati francofoni in cerca di identità. Un paese allo sbando, poverissimo, senza prospettive e una classe dirigente. Dopo i decenni di tirannia di Bokassa, si sono succeduti guerriglie, lotte intestine, presidenti deboli dal punto di vista della sovranità effettiva. Nessuno in grado di risollevare il paese e guidarlo verso l’autonomia. Qui, oltre a “mamma Francia”, negli ultimi anni ha preso sempre più spazio la Russia, presente anche con truppe e mercenari. In gioco, il legname pregiato, ma soprattutto le risorse minerarie centrafricane, in particolare oro, diamanti e uranio.

IL MALI IN MANO A MISSIONI MILITARI STRANIERE

Il Mali riassume i tanti problemi che affliggono diversi paesi dell’Africa occidentale: qui le pesanti ingerenze straniere hanno in particolare il volto della Francia. Non ci sono solo le missioni Onu, ma anche quelle militari francesi: prima la Serval (2012-2014), poi la Barkhane. Lotta al terrorismo che si sovrappone al contrasto del traffico di esseri umani; interessi geostrategici che si intrecciano con quelli economici; missioni militari e pesanti dictat politici da Parigi (e non solo).

Lo scorso agosto, un colpo di Stato ha rovesciato il presidente Ibrahim Boubacar Keita, portando a una transizione ancora tutta da scrivere, con i militari che promettono di cedere presto il ruolo ai civili. Intanto, nel nord del paese, non cessano le minacce terroristiche. Non è trascorso molto tempo dalla liberazione di Nicola Chiacchio e padre Pierluigi Maccalli, missionario della Sma: rapito in Niger e trasportato oltre confine, ha vissuto due anni terribili nelle mani di jihadisti, che agiscono indisturbati in quella terra di nessuno.

Alle missioni francesi, si aggiungerà presto una nuova forza multinazionale, la task force Tabuka, a cui prenderà parte anche l’Italia: lo scorso luglio, nel silenzio generale, il nostro parlamento ha votato a favore dell’invio di un contingente militare nel Sahel, sotto il comando francese e insieme ai corpi scelti di altri paesi europei. La missione coprirà Mali, Niger e Burkina Faso. Poche le informazioni disponibili, finora. Si sa solo che verranno inviati 200 militari italiani dei corpi speciali.

BURUNDI

Dopo la sanguinosa guerra civile e gli accordi di Arusha (agosto 2000) che vi posero fine, le Nazioni Unite stabilirono una missione nel maggio 2004 per implementare la pacificazione del paese. L’Onub terminò le sue funzioni il 31 dicembre 2006, sostituita da altre tre missioni, con nomi diversi e il compito di combattere l’impunità e supportare le istituzioni nazionali, il dialogo, i diritti umani. Poi, per un anno, è stata la volta della Menub, la missione Onu di osservazione del processo elettorale, falsato dal fatto che il presidente uscente fosse in sostanza il candidato unico. Elezioni drammatiche, precedute e seguite da una violenta repressione del dissenso. Il segretario generale dell’Onu decise allora l’invio di un consigliere speciale per la prevenzione dei conflitti, con l’obiettivo di monitorare il dialogo interburundese che si stava svolgendo sotto l’egida dell’Eac (East African Community).

Negli ultimi anni il Burundi si è avviluppato in una sorta di sdegnosa autarchia: il presidente Pierre Nkurunziza (morto improvvisamente lo scorso giugno) aveva via via tagliato i rapporti con paesi e istituzioni internazionali, isolandosi sempre più. La sua terza rielezione incostituzionale era stata salutata da ben pochi paesi: Russia, Cina e qualche Stato africano. Lui e il suo entourage avevano proseguito imperterriti, sbeffeggiando le sanzioni dell’Ue, il procedimento aperto alla Cpi dell’Aia, le accuse di violazioni dei diritti umani. La risposta era sempre la stessa: ingerenza in fatti interni. Fino all’espulsione degli operatori dell’Oms durante la prima ondata della pandemia. Perché “Dio avrebbe protetto il Burundi”. Poi, la morte improvvisa di Nkurunziza, a cavallo delle elezioni a cui aveva deciso di non ricandidarsi, designando un delfino. Ufficialmente, un infarto. Ma voci insistenti parlavano di Covid.

Il nuovo presidente, Evariste Ndayishimiye, pare per ora seguire le orme del predecessore: isolati dal mondo, nell’illusione che l’autarchia comporti un’indipendenza che invece diviene sempre più una chimera.

Questa, in sintesi, la situazione dei paesi “a sovranità limitata”: un quadro necessariamente non esaustivo, che mostra quante fragilità esistano ancora nel continente africano a sessant’anni dalle indipendenze. Molte democrazie sono ancora giovani e deboli, in mano a classi dirigenti immature, ove non addirittura cleptocratiche. Le rapaci influenze esterne non aiutano a costruire un percorso di reale autonomia. Solo una nuova classe dirigente illuminata potrebbe traghettare questi paesi verso la svolta. Passo non impossibile, come dimostrano altri paesi, dal Senegal al Ghana, dallo Zambia al Sudafrica, con democrazie giovani ma solide.



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