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Lettera aperta a Paul Kagame, presidente del Rwanda

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Sig. presidente, sono un cittadino italiano. Scrivo questa lettera semplice non come esperto o politico, ma come fratello, membro dell’unica famiglia umana. Ho vissuto lungamente a Goma, (Repubblica Democratica del Congo), ho partecipato al dolore di questi ultimi anni di guerra nella regione dei Grandi laghi. In questi anni nell’area si sono tenuti numerosi colloqui e anche accordi di pace, che a molti sono parsi come segno di speranza, in particolare per me che ho vissuto a Goma l’avvio delle istituzioni della transizione in Congo.

Oggi, insieme a molti altri, sono fortemente preoccupato per l’insicurezza e la paura che sta vivendo la popolazione civile, di nuovo oggetto di abusi di massa.

Ho letto la recente denuncia fatta dall’incaricato dell’Onu, Egeland, ai diplomatici del Consiglio di sicurezza. In essa viene presentata l’emergenza della Rd Congo, teatro per anni di un cruento conflitto. Una guerra combattuta soprattutto contro i civili e che ha causato oltre tre milioni di morti. Oggi la regione è ripiombata nel terrore a causa dell’insubordinazione di due ufficiali, sostenuti dalle truppe del Suo paese. Nonostante le denunce, le affermazioni, le esortazioni degli organismi internazionali, Ciat, Onu, Ocha... dell’Unione Africana e dell’Unione europea, la situazione rimane grave. È la fame. C’è paura e insicurezza. Le radio comunitarie ieri sono state distrutte e oggi continuano ad essere minacciate. La popolazione teme la ripresa su larga scala dell’avventura militare. La società civile congolese, i responsabili delle confessioni religiose e la popolazione, vedono in pericolo il processo di transizione, le libere elezioni e la costituzione di uno stato di diritto nella Rd Congo. Certamente c’è anche chi teme la fine della guerra e delle ostilità perché ciò significa la fine dello sfruttamento delle ricchezze del Paese.

Sig. presidente, Lei sa il mare di dolore che si è riversato sul Congo dopo il genocidio rwandese dei tutsi e hutu moderati. Centinaia di migliaia di profughi del suo Paese sono morti uccisi o lasciati morire di stenti. Una scia di sangue ha sconvolto città e villaggi: Uvira, Bukavu, Kasika, Kilungutwe, Makobola, Mashisi, Lukweti, Kisangani, Walikale, Katogota, Ituri, Drodro, Bunia e quanti altri luoghi ancora! Morti e massacri su cui pesa anche la  responsabilità del suo regime. Tanti innocenti sconosciuti o noti per la loro saggezza ed onestà sono stati uccisi. Ricordo l’esecuzione del vescovo di Bukavu, mons. Munzihirwa, uomo intelligente e mite. Lei sa quanto hanno giocato gli interessi economici, il silenzio, la menzogna nelle vicende dolorose dell’intera regione, a partire dagli anni ’90.

Al genocidio sono seguiti altri massacri, deportazioni, fame e, soprattutto, odio, servitù, sospetto, paura. L’ultimo rapporto presentato all’Onu condanna la presenza delle sue truppe direttamente implicate negli scontri a Bukavu e nella destabilizzazione della regione del Kivu. In Occidente (Europa, Usa), molti non sanno...

Non può essere oggi il ricatto del genocidio l’arma ideologica per sottomettere la maggioranza dei rwandesi; ciò significa tenere acceso il fuoco sotto la cenere. Dio non permetta altri massacri, altre guerre. È ciò che ho visto e temuto, attraversando recentemente il Rwanda. Una natura rigogliosa, colline come dei templi coltivate a terrazzi, gente che lavora e si nutre. Ma anche l’ombra di un potere, che, ancora oggi, si regge sulla forza delle armi ed è presente un po’ ovunque. La presenza disseminata dei militari e la pressione psicologica televisiva, con il continuo ritorno alle immagini del genocidio, ricorda che anche in Rwanda non c’è ancora la pace, né basta il silenzio per eliminare il germe dell’odio e della paura.

Sig. presidente, Lei può ancora scegliere il sentiero della pace. Ci credo perché anche Lei è un uomo, un figlio di Dio. La Sua autorità è riconosciuta da molti Paesi. Dice un proverbio africano: “Kinywa cha muzee inanuka, lakini haseme bongo” (“la bocca di un vecchio puzza ma non dice il falso”). In quanto vecchio che da anni segue la situazione della regione, mi permetto di lanciare alcuni suggerimenti. Vedo necessari il dialogo, la  riconciliazione e lo sviluppo.

DIALOGO

  • sì al dialogo all’interno del Rwanda, aprendo alla partecipazione di tutti. Anche di coloro che oggi sono esclusi, siano essi tutsi o hutu;
  • sì al dialogo con i Paesi vicini, costruendo insieme agli altri la conferenza dei paesi dei Grandi laghi, per un futuro di pace nella regione;
  • sì alla collaborazione con la Comunità internazionale per un controllo temporaneo delle frontiere fino alle libere elezioni.

RICONCILIAZIONE

L’amnistia è stato uno dei pilastri della rinascita italiana dopo la seconda guerra mondiale. Forse è più rispondente alla cultura africana il modello individuato in Sudafrica che basa la riconciliazione sul riconoscimento delle proprie colpe e sul perdono collettivo che ricostruisce i rapporti sociali. Penso che anche in Rwanda sia necessario giungere a questa riconciliazione collettiva, attraverso:

  • l’investigazione sui fatti storici che hanno portato a questa situazione e che non possono essere sintetizzati dal solo episodio, seppur drammatico, del genocidio. Vanno investigati anche i fatti anteriori e successivi al genocidio stesso;
  • la formula della gacaca, rappresentando un sistema di riconciliazione e di perdono quasi personale tra chi ha sbagliato e la sua vittima, rischia di non portare alla riconciliazione sociale, bensì all’asservimento di chi si riconosce colpevole;
  • c’è bisogno dell’aiuto di Dio, della mediazione degli antenati, delle vittime innocenti di ieri e di oggi e di tutte le etnie per celebrare collettivamente il perdono e la riconciliazione. Solo allora sarà la festa.

SVILUPPO

Le potenzialità del Rwanda si misurano, più che sul numero dei chilometri quadrati del territorio, sull’intraprendenza e la tenacia creativa della sua gente. Il Paese può diventare un’area industrializzata capace di creare e lanciare manufatti per se stesso e per l’intera regione. Attualmente tutto si importa dall’estero. Il problema, a volte sollevato, della sovrappopolazione, può essere superato nel dialogo con i Paesi vicini, applicando la libera circolazione delle persone e dei beni, nel rispetto delle leggi del Paese che accoglie e in una intelligente politica di buon vicinato.

Sig. presidente, noi europei che abbiamo avuto il dono di vivere in Africa, ci siamo accorti che da questo continente può giungere una nuova parola di vita per tutto il mondo. L’Africa, nonostante tutti i suoi drammi, sta rinascendo, anche attraverso il sogno dell’Unione Africana. Vogliamo dire un sì vero a questa Africa. Un sì che la liberi dalle schiavitù di ieri e di oggi e che ridoni fiducia alla vita dell’umanità intera, con la sua gente.

André Sibomana, una coscienza viva del popolo rwandese, ha scritto: “Ho scoperto nel sangue e nelle lacrime che il cammino della verità non è un cammino facile. Non rinunciamo alla speranza. Il futuro assomiglia a ciò che decidiamo di fare”.

I tanti martiri di ogni etnia che sono entrati nella terra degli antenati, sono per tutti noi un invito pressante a costruire un mondo in cui ogni persona umana si senta a casa. Per parte mia, Le ho scritto come un vecchio che ha incontrato lungo la sua vita tanto amore e tanto dolore. Parlo però anche come chi, nel buio della notte, ha intravisto una luce. È il sogno e la speranza di un’Africa in piedi, che costruisce, mano nella mano, un presente e un futuro che altro non sia che un’esplosione di vita.                                                                                                              l

Silvio Turazzi - muungano@libero.it



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