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KAROL WOJTYLA: MISSIONARIO AD VITAM

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Negli ultimi tempi la parola missione viene usata per molteplici significati, dalla missione umanitaria a quella della Nasa e perfino a quella aerea militare. Bisogna ammetterlo: per più di 26 anni “il papa venuto da lontano” ci ha fatto buona pubblicità, attirando l'attenzione sulla missione evangelica anche con slogan: “Spalancate le porte a Cristo, Duc in altum, Vinci il male col bene , Dàmose da fa'… ”. Innanzitutto lo rendeva missionario la convinzione profonda che la missione è per la pienezza di vita del mondo, che la missione sta nell'incontro tra la presenza di Cristo, creduta e sperimentata come salvezza, e l'umanità sofferente.

Giovanni Paolo II non aveva dubbi sulla potenza di quell'annuncio di Gesù che prima di tutto aveva cambiato la sua vita.

Per lui la fede in Gesù Cristo faceva la differenza anche nella società del post-moderno, secolarizzata e consumistica: all'uomo moderno non c'è dono migliore che il vangelo. A quest'annuncio il missionario Wojtyla ha dedicato fino all'ultimo istante la vita, offrendo l'esempio di una fiduciosa attesa della morte.

Ancora, la missione è strettamente legata all'inculturazione.

Dappertutto Giovanni Paolo II si sottometteva ai riti di accoglienza: dai fiori accolti al bacio della terra, dai gesti di saluto alle corone floreali attorno al collo. La conoscenza delle lingue e soprattutto il suo carisma di comunicatore gli hanno dato una marcia in più.

La vocazione missionaria di Wojtyla aveva poi una sua spiritualità che lo spingeva a fare il primo passo: verso il Muro del pianto a Gerusalemme, nella moschea di Damasco, a Casablanca nello stadio pieno di giovani marocchini, nella sinagoga di Roma, a Londra con gli anglicani, nella città di St. Louis (Usa) chiedendo la grazia della vita per Darrell Mease, condannato a morte. È suo il primo passo verso la cella di Ali Agca: si scagliano pietre solo contro l'albero che ha frutti, dicono i bakongo, e Karol Wojtyla in un incontro storico aveva il frutto del perdono da donare al suo feritore.

Qui sta gran parte della “difficile eredità” di questo Papa: la convinta scelta a favore del dialogo tra le religioni, con gesti, come gli incontri di Assisi, compiuti nonostante gli allarmi sui possibili rischi di “confusione e sincretismo”; il rifiuto della guerra, divenuto sempre più insistente nell'ultimo quindicennio e coniugato, dopo la distruzione delle Torri Gemelle, col richiamo all'esigenza del perdono per spezzare la spirale devastante della violenza e della vendetta; un perdono peraltro non solo sollecitato alle vittime, ma domandato in prima persona per gli errori della Chiesa nel memorabile (e non da tutti gradito) “mea culpa” pronunciato nel 2000.

Senza dubbio nella tensione fra il locale e l'universale Giovanni Paolo II ha dato priorità al mondo, fra l'annuncio e la cura pastorale ha scelto il primo aprendolo al dialogo, fra il neoliberismo di pochi e la condivisione con i molti poveri ha preferito mettersi a difesa di questi ultimi, facendosi la loro voce e avvocato.

Giovanni Paolo II al suo capezzale ha avuto persone da tutto il mondo, pianto da quelli che aveva cercato con quella marcia in più di missionario per il mondo intero.



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