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Il peccato di omissione ossia la complicità

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Chi è impegnato da tempo per promuovere processi di inclusione e di cittadinizzazione delle minoranze immigrate in Italia, sa quanto grande sia la fatica per dare ragione delle personali istanze di coerenza comportamentale e di fedeltà al corso della propria storia quotidiana. I temi collegati alle problematiche dei flussi migratori si rivelano sempre più ammantati di opportunismo: sia a causa delle congiunture economiche condizionate dal costo del mercato del lavoro sia dalla volontà di legittimazione dell'esercizio del potere. Nei Paesi di immigrazione sono state varate leggi che intendono avvalersi della possibilità di sfruttamento della manodopera straniera, in base alle proprie esigenze, ma che al contempo non permettano a tale forza lavoro di confondersi con i cittadini autoctoni: la separazione degli status giuridici va oltre il solito ritornello legato al binomio: "diritti - doveri". Vi è oggi una volontà "politica" per mantenere larghi strati delle società moderne in una condizione di "iloti", ceto necessario al mantenimento del livello di vita e di benessere acquisito, da mantenere in una quiescente sottomissione. Il lavoro di questi esseri umani ci è necessario, ma la loro presenza ci è di disturbo: dovrebbero potersi dissolvere con il calare della sera per rimaterializzarsi il mattino dopo sul posto di lavoro e questo... per sempre. È facile, anche per le coscienze più attente scivolare in tale corrente e lasciarsi trasportare dai luoghi comuni e dal pregiudizio.

La tentazione di evitare la fatica della coerenza e della verità è immensa, soprattutto per chi deve difendere i propri opportunismi, ed è facile abbandonarsi alle omissioni colpevoli; il silenzio colpevole di chi dovrebbe aver a cuore il bene comune di tutti i cittadini è assordante.

Per un pugno di voti urlanti si manda al macero la dignità umana.

Chi dovrebbe per mandato istituzionale garantire l'uguaglianza di tutti i cittadini e lavorare per la costruzione ed il mantenimento del bene comune spesso gira lo sguardo dall'altra parte: ritiene che ogni atteggiamento, pur se con caratteristiche che possono indurre ad azioni discriminanti, di contenimento della visibilità e della "spazialità" della presenza degli immigrati, sia motivato ed assolto dalla ragion politica.

L'omissione diventa la strada scivolosa in cui ci si incammina facilmente, nella convinzione che solo la parola o l'atto portino con sé un seme di peccato, mentre il "non fare nulla" ci mette al riparo da ogni responsabilità etica. In un contesto di sempre più pervasiva globalizzazione economica, che sradica e mette in movimento centinaia di milioni di persone su tutto il pianeta, diventa sempre più urgente costituire un insieme di minoranze portatrici di istanze etiche.

Minoranze di ogni credo e provenienza.

È inutile gridare ai quattro venti la propria delusione e la propria amarezza se non c'è una coscienza capace di diventare luce, sale della terra e lievito. Una piccola, minuscola presenza, che però è in grado di innescare processi inarrestabili. La funzione profetica dei "piccoli" e dei "deboli" è quella di essere una pietra d'inciampo, anche per l'arroganza del potere e della menzogna. L'immigrazione ha portato ciascuno di noi a specchiarsi in altre culture, altre lingue ed altre religioni: "specchiarsi in" perché le similitudini sovrastano le separatezze e le solitudini; le incertezze, le angosce, come le gioie e le speranze, diventano di fatto un patrimonio largamente condiviso da tutti: ora e in questo luogo. La coscienza di appartenere alla stessa storia e la certezza di avere uno stesso futuro possono lentamente entrare a far parte del nostro pensare comune, un pensare "diffusivo" che non si limita all'esercizio della retorica, ma che cerca di difendere le proprie ragioni, in ogni contesto, anche scomodo, per non diventare, nostro malgrado, complici omertosi di ingiustizia e di conflitti.



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