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IL FILM-TESTAMENTO DI MAMBETY

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La petite vendeuse de Soleil, un magico film del regista senegalese, scomparso lo scorso luglio: il 9° Festival del cinema africano (Milano, 19-25/3/99) ha trovato così il suo capolavoro.

Il film è una metafora dell’Africa indomabile di oggi, nonostante viva un momento drammatico tra cruenti guerre civili ed ennesime aggressioni finanziarie e culturali.


Giro… giro ancora… non sono mai soddisfatto; ma verrà un giorno in cui la terra smetterà di girare e allora anch’io mi fermerò1”. Queste parole sono di uno dei registi più ispirati del cinema africano, Djibril Diop Mambety, che ci ha lasciato improvvisamente, a soli 53 anni, lo scorso 23 luglio. Strappato via da un cancro, “il principe di Colobane” – com’era ovunque soprannominato – è però riuscito a lasciarci in dono uno straordinario film-testamento, La petite vendeuse de Soleil. È la continuazione della trilogia iniziata con Le franc (1994) e destinata dunque a restare per sempre monca. Va detto che anche questo magico mediometraggio della durata di soli 45 minuti sarebbe rimasto molto probabilmente incompiuto, se non fosse stato per l’aiuto in fase di montaggio del fratello più giovane del regista, Wasis Diop. Ed è così che il Festival del cinema africano di Milano, giunto ormai alla sua 9° edizione (19-25 marzo ‘99), ha potuto presentare questo capolavoro in apertura.

Portatore di una parola viva alla quale gli anni hanno aggiunto il fascino e lo spessore del tempo, Djibril s’identifica idealmente con un albatros nero che volteggia sopra il porto di Dakar. E da lì sopra vede tutto: gli spruzzi degli uccelli da preda, il mercato Kermel che fu distrutto da un incendio più di tre anni fa in seguito alla noncuranza dell’amministrazione locale ed è stato recentemente ricostruito dietro la stazione, le tracce delle magnifiche architetture anni ’30, le spiagge, l’asfalto. È appunto a Dakar che bisogna tornare, dove il regista ha portato il cinema fino all’estremo delle sue aspettative, delle sue lotte, delle sue sconfitte. Questa sarà ancora una volta una scommessa, una favola, un’idea gettata nel corpo del cinema per misurarsi con esso.

UNO SQUARCIO NELL’OSCURITÀ

La protagonista è una ragazzina di 12-13 anni – “di quell’età in cui ogni cosa è possibile2”, dirà il regista – che, in seguito ad un handicap fisico, è costretta a vivere di carità. Mentre sua nonna, cieca, al mercato di Dakar, salmodia il Corano ed altre antiche melodie, un gruppo di ragazzini prepotenti, strilloni di giornali, la prendono di mira perché è indifesa, proprio come un ragazzo spastico su una sedia a rotelle che si guadagna di vivere accedendo, a richiesta, il suo megastereo e al quale è facile strappare il berretto… Ma la piccola Sili (Lissa Balera) ad un certo punto dice: basta mendicare, se ce la fanno persino questi stupidi ragazzi, anche io posso vendere i giornali. Va alla redazione del quotidiano Soleil, si fa dare 13 copie fresche di stampa e con l’aiuto di un collega più grande e generoso, a metà fra la guardia del corpo e l’angelo custode, ce la fa.

Si emancipa e diventa una creatura ancora più meravigliosa. Con un sorriso smagliante, i suoi occhialoni gialli da sole acquistati con i primi guadagni, i suoi vestiti leggeri, rosa e verdi… Compra un parasole per la nonna accaldata, offre una Coca fresca a tutti gli amici teenager e con i più poveri dividerà gli incassi. Nonostante una gamba di legno penzolante, si lascerà andare infine a qualche passo di hip-hop dance.

Non è la prima volta che Mambety sceglie per protagonista di un suo film una donna, o meglio una ragazzina. “Hyènes del ‘92 (altro capolavoro, ndr) non era forse tutto incentrato su una donna? No, direi che la donna a tutte le latitudini è sempre stata al cuore del mio cinema. Di più: l’intera produzione di questo continente trae ispirazione dalle donne, quindi dai bambini, e in definitiva dalla vita”. Rispetto a Hyènes, qui però c’è qualcosa di più: un ottimismo e un’apertura senza precedenti. Come La petite vendeuse, il regista è finalmente cresciuto e, come lei, si è disfatto delle sue stampelle. Ora è libero, forse perché ha preso le distanze dal cinema. “Venticinque anni fa volevo vincere, volevo seriamente provarci”, ha confessato ultimamente il cineasta, “adesso invece voglio imparare di nuovo”. I film si fanno così radi; ma talvolta – ed è questo il caso – si riesce a catturare “tutta la rarità della gravità dell’innocenza”. 

Ha spiegato ancora: “Sono i desideri, la materia prima dei film. Il cinema è qualcosa che può essere facilmente grande. Ma devi essere tu a dominarlo; se invece sei suo schiavo è finita. È un vento. Devi soffiare nella direzione in cui ci sono dei fiori che oscilleranno quando soffi. Devi rivolgerti al fiore, se vuoi che il muro crolli. Perché solo il fiore ha la forza di rompere il muro”. Non è una combinazione che La petite vendeuse sia stato girato proprio fra il Sahara, dove soffia forte l’harmattan, e l’Atlantico. La fede che questo regista ha nelle virtù del vento, è davvero molto grande: “So aspettare il vento, perché lo amo e lo ascolto. I venti contrari, essendomi indifferenti, passano oltre. Ma il vento che attendo viene, mi riempie e mi porta con sé. Dove? Non necessariamente verso amici, comunque verso possibilità. Così, aspetto in definitiva delle possibilità. Quando poi le incontro, facciamo insieme delle piccole meraviglie”.

Ma ha ancora senso fare film oggi, che dalle immagini siamo letteralmente invasi? Di questo Djibril non ha dubbi: “Certo, come aveva senso farli un migliaio di anni fa. Allora, avevamo già degli straordinari satelliti: i tamburi. L’eco diffondeva il suono dal vertice della piramide giù fino alla base, e cioè per l’intera lunghezza della pianura. È lo stesso principio di internet”.

E il cinema? Deriva proprio da questa possibilità permanente di squarciare l’oscurità.

“Quando dico oscurità, è perché ogni cosa è nata dalla notte”, ha spiegato Mambety, “e il cinema significa un’apertura, un fascio di luce. È per questa ragione che varrà sempre la pena girare dei film”.

ALESSANDRA GARUSI.


1 Djbril Diop Mambety in Ecrans d’Afrique, n. 2.

2 Questa citazione e le seguenti sono tratte da un’intervista rilasciata a Michel Amarger (Ecrans d’Afrique, n. 24, 1998).



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