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Il dott. Gildo Coperchio, missionario in Bangladesh da vent’anni, riprende a scrivere e rompe finalmente il silenzio. “Questo è stata una sorta di malattia acquisita nel villaggio. La quotidianità, in un mondo come questo, chiude la bocca a chiunque”.

Mi appresto a concludere l’esperienza di Chuknagar e cominciare il mio lavoro a St. Vincent’s Hospital di Dinajpur al nord del Bangladesh. Questi due anni passati nel villaggio, sono stati anni che mi hanno fatto crescere. Ho creduto che la strada che mi si prospettava davanti, per quanto nuvolosa, avesse una sua meta.

E qualcosa di nuovo l’ho indubbiamente intravisto.

Tra i tanti appunti fatti preparando questa lettera, ho scritto: “In questo periodo più rare sono state le mie lettere. Rare perché il villaggio ti isola dal mondo, in una sorta di clausura, pur aprendoti al mondo di Dio, cioè al mondo dei più bisognosi, dei più ignoranti, dei più ottusi, dei mai contenti, di coloro che hanno sempre la mano tesa: di coloro che non possono e non sanno dirti grazie ma, proprio per questo, sembrano essere stati scelti da Dio per essere i suoi figli prediletti. È questa la sensazione nuova che mi sta nascendo dentro dopo questo breve periodo passato sulle strade più o meno fangose di questo “stranamente nuovo” Bangladesh.

Questa può essere la causa delle mie rare lettere. Il silenzio è stata una sorta di malattia acquisita nel villaggio. La quotidianità, in un mondo come questo, chiude la bocca a chiunque. Si ha paura di rovinarlo il villaggio, di violentarlo, di usarlo impropriamente per i propri fini. Solo il Natale mi ha fatto rinascere dentro la voglia di dirvi “Grazie, amici!”, spingendomi così a riprendere in mano la penna e a tentare di esprimere, in qualche modo, quanto si agita dentro di me.

Rispondendo a chi mi interpellava dopo il mio ritorno in Bangladesh così avevo scritto: “Esistere oggi, è seguire la Bellezza, anche quando vi guiderà sull’orlo del precipizio, e benché essa abbia le ali e voi no, e varcherà il precipizio, seguitela, perché dove non esiste Bellezza, nulla esiste…”. (Kahlil Gibran) In questo brano poetico ho sentito riecheggiare in qualche modo il più familiare invito evangelico: “Va, vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri; poi vieni e seguimi...”.

Oggi posso aggiungere che proprio seguendo la Bellezza, cioè Dio, nel “precipizio”, ci si accorge di avere ali che si pensava di non avere. È proprio in questo genere di impossibili voli che l’eternità entra nel nostro tempo. È stata questo la mia vita di villaggio: un volo sul precipizio. Ho imparato che non ha più senso parlare di morte, di dolore, di gioia, di eternità, di Dio stesso. Dio non parla mai di se stesso, ma continua a parlare sempre dell’Altro. “Se non ami il tuo prossimo che vedi, come potrai dire di amare Dio che non vedi?”.

L’Altro è il precipizio da varcare, perché è nell’Altro che la Bellezza si è voluta nascondere. E in questa relazione con l’Altro, occorre diventare semplici e senza parole, come il riso che cresce o come la pioggia che cade... Si deve semplicemente essere. Essere senza discorsi superflui, senza fare ricorso o chiedere aiuto al verbo “avere”. Essere nell’assoluto dell’indigenza, del non potere, del non sapere. Essere leggeri quanto una gracile spiga di grano o di riso, o come lo stelo di un tulipano, una pioggia sottile, un’impalpabile brezza del mattino; essere immensi quanto il cielo. Essere: è avventurarsi nello spazio in espansione di questo verbo, il più esigente e il più faticoso di tutti i verbi, insieme con il verbo “amare”.

Ciò implica che bisogna mollare gli ormeggi, le sicurezze, a cominciare dalle passioni che alienano, dalle paure che intrappolano ed umiliano, dalla collera e dallo spirito di vendetta, di rivincita, che logorano invano le forze di cui si dispone, dal disprezzo, dalla indifferenza che sono solo travestimenti della pigrizia; e infine dall’odio che corrompe il cuore e la mente, li sporca e li fossilizza.

Essere, nient’altro, ma senza misura né concessioni.

GILDO COPERCHIO, Chuknagar (Bangladesh).



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