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Forum "Pluralismo Religioso", Interventi

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Dio è il poeta del mondo. Il mondo ha parole fragili, ma con queste Dio cerca sempre di scrivere il miglior poema possibile.

IDA FERRARI

Io accompagno un’esperienza interreligiosa a Novellara e recentemente ho partecipato a una giornata che ha coinvolto studenti cristiani di varie confessioni, musulmani, sikh. Il parroco cattolico ha letto il brano evangelico della lavanda dei piedi, sottolineando come persone che lavano i piedi ad altri a loro volta se li trovano lavati, per esempio dalla gentilezza degli anziani nel caso di un’infermiera che lavora in una casa di riposo.

LUCIANO CORRADINI

Nel suo libro La prima generazione incredula Armando Matteo cita Claudio Magris, il quale definisce un peccato per credenti e noncredenti il fatto che stia scomparendo una grammatica e una sintassi di comprensione dell’esistenza per la mancanza di un riferimento cristiano. In effetti l’esistenza di Dio è un elemento di stabilità della vita, di intelligibilità del mondo, di governabilità della società, di rinvio al futuro di tutto ciò che ha senso e non possiamo vivere su questa Terra. Allora le persone si trovano prive di un sentimento capace di superare il luogo in cui si trovano, per cui indifferenza e insignificanza rappresentano la condizione di molti, soprattutto giovani, che finiscono per limitare le loro relazioni a una cerchia ristretta, mentre mezzo secolo fa l’Azione cattolica educava a una visione mondiale. Mi preoccupa questa mancanza di capacità di trascendimento.

SUOR ANTONELLA (Missionaria Comboniana)

Le riflessioni dei relatori mi hanno fatto ripensare a quando p. Alberto Maggi diceva che le religioni sono la rovina dell’umanità perché dicono ciò che dobbiamo fare per Dio e in nome di Dio si fa di tutto, mentre quella cristiana è una fede, accoglienza di Dio che vuole donarci oltre alla nostra creaturalità anche la sua divinità in un piano di comunione. La nostra fede è divenuta religione sull’esempio di quella ebraica, con riti, templi, ecc., mentre Papa Ratzinger ha previsto che la nostra Chiesa tornerà a essere un piccolo gregge, povero, cui persone e comunità guarderanno per attingere speranza e significato della vita. Questa è una conversione cui saremo costretti dalle circostanze o che dobbiamo compiere da subito?

PEPPINO

Qualche anno fa a proposito del tema “Siamo gli ultimi cristiani?” lessi uno scritto di Umberto Galimberti, in cui egli affermava che il cristianesimo sarebbe stato messo definitivamente in crisi non dall’ateismo, ma dalla tecnica. La tecnica mette a rischio la continuità del cristianesimo?

CERUTI

Boschini ha mostrato bene come sia importante avere la pazienza, la capacità, la misericordia di sostare nelle soglie, e nella crisi questo significa formulare bene le domande. Oggi è tornato più volte il richiamo a cambiare paradigma, a imparare di nuovo a guardare e ascoltare, per cui conta più la domanda della risposta. Mi sono quindi venute in mente un’idea e tre immagini.

L’idea: quando dice “non è la prima crisi per l’Europa”, evoca il fatto che una singolarità dell’Europa consiste proprio nell’assenza di una “sostanza primaria” precedente al conflitto; l’identità dell’Europa è quella di un’entità storica in continua metamorfosi, una metamorfosi che emerge sempre da un vortice storico in cui le molteplici diversità si sono trovate in conflitto e i grandi contributi dell’Europa alla civiltà umana (la filosofia, la democrazia, ecc.) sono proprio tentativi di dare un corso creativo e non degenerativo al conflitto, a partire dal Mediterraneo, culla dell’universalismo, ma anche teatro delle più sanguinose guerre nella storia dell’umanità.

L’Europa come entità storica è stata anche sempre figlia dell’improbabile, fin da quando non c’era: le città greche, prima di generare la democrazia e la filosofia, furono sul punto di essere distrutte dall’impero persiano, ma riuscirono a resistere a Salamina e a Maratona; nel 1942 tutto faceva pensare che, con le truppe tedesche alle porte di Mosca, Hitler fosse sul punto di vincere la guerra, ma poi il ritardo provocato dall’imprevista resistenza incontrata nei Balcani e l’inizio dell’inverno russo con due settimane d’anticipo capovolse la situazione. La prima immagine: l’incompiutezza.

Torres Queiruga ha fatto un racconto non solo antropologico e teologico, ma anche epistemologico. Forse l’essenza dell’universalità dell’umano sta nel fatto che si declina sempre al singolare, il che vale per le persone, le religioni e le civiltà, per cui la perdita di un’esperienza particolare è una perdita per tutti. Questo ci rivela che la caratteristica dell’umano è la sua costitutiva incompiutezza, e infatti la degenerazione della cultura europea in colonialismo e imperialismo è avvenuta quando si è autocostituita a fine della civiltà, l’adultità completa cui ricondurre le altre forme.

Ma qual è la differenza tra il cucciolo di un animale e quello dell’essere umano?

Che il cucciolo di ogni animale, già poche ore dopo la nascita, è in grado di procurarsi il cibo e riprodursi, cioè è compiutamente adatto al proprio contesto grazie ai suoi determinismi genetici. Gli umani, invece, nascono attraverso l’esperienza del disadattamento e della mancanza, che si prolunga per anni, nei quali abbiamo bisogno di qualcuno che ci accoglie e riempie questa incompiutezza, in cui però si nasconde l’opportunità della formazione, che attraverso le istituzioni culturali abbiamo prolungato oltre la necessità biologica. Anche con le scienze abbiamo compiuto in tempi recenti l’errore di credere che l’età dell’incompiutezza si concludesse con la fine dell’adolescenza, mentre ormai gli psicologi la estendono all’intera vita, a intendere che costitutivo della nostra identità e creatività è il prenderci cura di quanto è incompiuto in noi e rivela che la relazione è costitutiva della nostra identità; quindi tale relazione continua ad alimentare nelle forme dell’amore e della conoscenza, tanto che i francesi per dire “conoscenza, conoscere” dicono “connaissance, connaître”, cioè “nascita-nascere insieme”.

La seconda immagine: è nella nostra incompiutezza che nasce la possibilità dell’ascolto, della lavanda dei piedi. Abbiamo perso il senso dell’estetico nel nostro tempo in cui tutto è pubblicizzato come bello e desiderabile, ma è un bello di consumo, mentre si tratta di recuperare il bello nello stare insieme. Ci è rimasta invece l’esperienza del contrario, dell’anestetico, che è quello che ci toglie la sensibilità al trapano del dentista, per cui l’estetico è la cura alla sensibilità alla relazione con gli altri, non il bel quadro esposto in un museo. Questo è il compito della formazione: tenere aperta la nostra incompiutezza come cura della sensibilità alla relazione, alle diversità, alle identità multiple dentro di noi e fra noi.

L’ultima immagine: un grande romanziere europeo vivente, Milan Kundera, per definire l’Europa ha evocato la particolarità del romanzo – anch’esso un’invenzione europea – come luogo in cui l’umanità europea ha esplorato le proprie vicissitudini, sostando sulla soglia della crisi, mentre filosofia e scienza cercavano di rispondervi, e ha citato come punto di partenza un bel motto ebraico, che dice: “L’uomo pensa, Dio ride”. Dio ride quando vede l’uomo pensare per tre ragioni, secondo Kundera: perché, pur pensando, all’uomo sfugge la verità, perché più gli uomini pensano, più la verità dell’uno si allontana da quella dell’altro, e poi perché l’uomo non è mai quello che pensa di essere.

Questa condizione all’inizio dell’epoca moderna si rivela e diventa incomprimibile: il Dio dei filosofi si ritira dal luogo in cui aveva messo ordine nel mondo, mentre Don Chisciotte e Sancho Panza, i primi personaggi del romanzo europeo, escono di casa e la loro verità del mondo e di se stessi svanisce. È il racconto di questa identità complessa. Allora Kundera dice che il romanzo è lo spazio unitario e immaginario in cui nessuno è in possesso della verità e ciascuno ha diritto di essere compreso. Queste immagini meritano di essere coltivate e accudite perché ci consentono di curare la nostra sensibilità all’altro per ritrovarlo come generatore di noi, contro l’immagine, che pure è stata all’origine dell’Europa moderna, delle tablas rasasche è stata il paradigma della Conquista.

Ma l’Europa è il laboratorio ambivalente di queste immagini opposte e forse nella sua fragilità attuale può essere per la prima volta un tesoro debole per trovare nell’incompiutezza delle molteplici identità che si incontrano nell’età globale una risorsa.

TORRES QUEIRUGA

Io vorrei dire una parola di speranza. Dio ride, ma con amore, perché in fondo c’è sempre lui dentro e dietro i nostri sforzi. Parlando di “ultimi cristiani”, io penso che Gesù abbia vissuto una situazione un po’ simile alla nostra. Veniva alla fine di un percorso storico del giudaismo, testimoniato anche dalla scena degli Atti degli apostoli in cui la gente si chiede se esista lo Spirito Santo e se stia tacendo. Gesù arriva in quel momento di crisi, credo maggiore della nostra, e paga con la sua vita, ma semina speranza perché scopre che Dio ci ha creato e ci crea per amore, per cui è sempre con noi, il che è per noi una fonte viva di speranza.

Ho parlato di “teocentrismo”, ma quando voglio avere Dio come centro faccio quello che ha fatto Gesù, guardo a questo “Abbà”, padre e madre che è sempre fonte viva di speranza perché sappiamo che, anche quando ci sentiamo abbandonati, Dio non ci abbandona e le crisi derivano dalla nostra psicologia, dalla nostra cultura, ma dentro c’è questa fiducia profonda che Dio, col suo amore creativo, ci accompagna sempre.

Due definizioni di un filosofo inglese, Alfred North Whitehead, mi piacciono molto. La prima: Dio è il poeta del mondo. Il mondo ha parole fragili, ma con queste Dio cerca sempre di scrivere il miglior poema possibile. E riusciremo sempre a scrivere un po’ di questo poema, a narrare una nuova umanità, sapendo che il poema non sarà mai perfetto, ma possiamo migliorarlo un po’ e riunirvi tutte le voci. L’altra definizione: “Dio è il grande compagno, il compagno di sventura che capisce”. Dio è nella nostra storia, nelle nostre crisi, ci accompagna nella sofferenza, ma capisce tutto. Non voglio credere alla fragilità di Dio, perché se Dio fosse fragile come noi, non saremmo salvati; ma lui partecipa alla nostra fragilità per aiutarla. E se Dio è il “grande compagno” nelle nostre sofferenze e nelle nostre lotte, allora abbiamo diritto alla speranza, malgrado tutto.



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