Skip to main content

BURUNDI / LA SVOLTA MANCATA

Condividi su

Le elezioni presidenziali, attese con apprensione da mesi, avevano per un attimo fatto confidare in un cambio di passo. Ma le speranze sono andate presto sfumando.

Il Burundi ha votato il 20 maggio. Per la prima volta dopo 15 anni, Pierre Nkurunziza non era più candidato. Il suo ritiro dalla scena aveva sorpreso molti e lasciato ben sperare: anche se al suo posto il partito al potere, il Cndd-Fdd (Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia-Forze per la Difesa della Democrazia) aveva nominato un fedelissimo, il generale Évariste Ndayishimiye, la scelta sembrava ricaduta su una persona apparentemente non troppo compromessa con le tragiche vicende degli ultimi anni, fatte di repressione violenta del dissenso e assolutizzazione del potere.

Cinquantadue anni, dal 2016 segretario del partito, ex ministro dell’interno e della sicurezza pubblica, già capo di gabinetto militare e civile del presidente, il gen. Neva (come è soprannominato) compariva già fra i principali capi militari del Cndd-Fdd alla firma del cessate il fuoco che nel 2003 mise fine alla guerra civile. Guerra nella quale Ndayishimiye aveva combattuto tra le file dei ribelli, come il presidente uscente e tanti altri dell’attuale classe dirigente.

UNA CAMPAGNA ELETTORALE MOLTO TESA

Al voto si era giunti dopo una campagna elettorale tesa, durante la quale poco spazio era stato concesso alle opposizioni, in particolare all’unico partito e all’unico candidato che aveva la forza per strappare la successione al Cndd-Fdd: Agathon Rwasa, del Cnl (Congresso Nazionale per la Libertà), anche lui hutu come Nkurunziza e Ndayishimiye. Una tale campagna elettorale se non altro mostrava uno spostamento dello scontro dal piano dell’appartenenza etnica a quello più propriamente sociale e politico. Già un passo enorme per il piccolo paese che nei lunghi anni di guerra civile, dal 1993 al 2006, aveva perso almeno 300mila persone.

Rwasa, l’ultimo capo ribelle a dismettere le armi, aveva buone possibilità di farcela. Per anni era stato a capo delle Fnl, le Forze Nazionali di Liberazione, i “duri” che on avevano voluto firmare gli accordi di pace e che avevano continuato a ricorrere alla violenza. Aveva già corso per le presidenziali, restando sempre a bocca asciutta. Stavolta pareva fatta: la conta parziale dei risultati sembrava darlo vincitore. 

La Conferenza episcopale, a sorpresa, è entrata a gamba tesa nell’agone politico al momento giusto, diffondendo una nota – mentre lo spoglio era in corso – nella quale, dopo aver lodato lo svolgimento del voto nella calma, si affermava però che gli oltre duemila osservatori elettorali cattolici dislocati ai seggi avevano registrato numerosissime irregolarità. Se ne faceva un elenco impressionante. Non si trattava di leggerezze: pressioni sui presidenti di seggio; schede già compilate; voto a nome di defunti o più votazioni da una stessa persona; intimidazioni agli elettori; violazione della segretezza del voto…

IL RUOLO DELLA CORTE COSTITUZIONALE 

Tutto lasciava presagire che si seguisse un copione già scritto. Non è un caso che, con la motivazione ufficiale del rischio covid, a nessun osservatore internazionale fosse stato consentito l’ingresso nel paese, soprattutto se si tiene presente che contro il coronavirus il Burundi è uno dei pochissimi paesi a non aver preso nessuna misura, contando “sulla protezione divina”, secondo le parole di Nkurunziza stesso.

Nonostante le osservazioni critiche dei vescovi, la Commissione elettorale (Ceni) pochi giorni dopo il voto ha decretato vincitore Ndayishimiye. Immediata la reazione di Rwasa, che ha annunciato ricorso perché i dati inviati dai suoi uomini dislocati ai seggi gli facevano dedurre di aver vinto con il 58%. Pochi giorni e la Corte Costituzionale ha convalidato, senza sorpresa, i risultati dichiarati dalla Ceni. Sono seguiti momenti di forte preoccupazione, dissipati solo quando lo sfidante ha annunciato di rispettare la decisione della Corte. Tutto sembrava procedere nella rassegnazione. Ma l’8 giugno sul paese si è abbattuta improvvisa la notizia della morte di Pierre Nkurunziza. Il presidente uscente, ricoverato d’urgenza, è spirato a 55 anni, ufficialmente per infarto, ma vi sono forti sospetti che si sia trattato proprio di coronavirus, poiché la moglie pochi giorni prima era stata evacuata in Kenya causa covid. Restava un pericoloso vuoto di potere: Ndayishimiye infatti doveva iniziare il suo mandato in agosto e, secondo la costituzione, in caso di morte del presidente, gli subentra il presidente del parlamento. Di nuovo, si è temuto un rischioso conflitto di potere. Ma anche qui, la Corte Costituzionale si è pronunciata dissipando i dubbi e richiedendo l’immediato insediamento del presidente in pectore: Ndayishimiye è da subito e per i prossimi sette anni il nuovo Capo di Stato.

TRA LE BRACCIA DELLA RUSSIA E DELLA CINA

La politica dell’isolazionismo portata avanti negli ultimi anni aveva precipitato il paese fra i tre più poveri al mondo. La decisione di Nkurunziza di uscire dalla Corte penale internazionale dell’Aja è stata forse la più clamorosa, ma non l’unica: il fu presidente aveva cacciato giornalisti stranieri, bandito ong e di recente espulso il team dell’Oms che si occupava del covid, rifiutando sdegnosamente aiuti occidentali. Nel consesso delle nazioni, il Burundi è così rapidamente scivolato fra le braccia di Russia e Cina, non a caso fra le prime potenze a congratularsi con il nuovo presidente, ma anche fra le pochissime potenze straniere che avevano accolto la terza rielezione incostituzionale di Nkurunziza. Non per nulla è la Cina ad avere ormai il monopolio di fatto delle infrastrutture e degli appalti, è la Cina ad aver costruito il nuovo faraonico palazzo presidenziale, probabilmente sarà sempre la Cina a realizzare le dighe e gli ospedali promessi dal nuovo presidente… se verranno realizzati.

Le parole d’insediamento di Ndayishimiye si inseriscono in questa scia, del resto il delfino non ha mai fatto mistero di voler “proseguire l’opera” del predecessore. L’impressione è stata confermata pochi giorni dopo, con la nomina del vicepresidente e del primo ministro: se il vicepresidente è in realtà un incarico abbastanza simbolico, quella di premier è una figura che mancava ed è stata reintrodotta.

DA UNA DITTATURA DI FATTO A UNA DITTATURA MILITARE?

In base alla Costituzione, il ruolo di vicepresidente spetta all’opposizione e all’altra etnia: è stato dunque scelto Prosper Bazombanza, uscito dall’Uprona (partito storico della minoranza tutsi) e che era già stato primo vicepresidente dal 2014 al 2015. Premier è stato invece nominato il gen. Alain-Guillaume Bunyoni, un nome che fa tremare, un falco, fedelissimo di Nurunziza, lui sì implicato nella feroce repressione che negli ultimi anni ha costretto alla fuga decine di migliaia di burundesi. Perché reintrodurre la figura di primo ministro per consegnarla a uno degli uomini più temuti del paese?

Nei gangli del potere dal 2005, Bunyoni è stato commissario generale della polizia, ministro della Pubblica Sicurezza e capo di gabinetto civile di Nkurunziza: di fatto numero due del regime dopo l’uccisione dell’ex patron dei servizi segreti Nshimirimana (2015). Il generale, sotto sanzioni da parte degli Stati Uniti dal 2015, è simbolo delle malefatte del sistema Cndd-Fdd, regista della repressione e del pugno di ferro. Secondo alcuni analisti Ndayishimiye non poteva esimersi dall’affidare un ruolo di peso all’ala dura del partito, forse anche per tenerla a bada. Ma unanimemente la scelta di Bunyoni come premier ha suscitato enormi preoccupazioni. “Un pessimo segnale”, secondo la società civile burundese, che vi legge anche un’ennesima sfida alla comunità internazionale.

Commenta amaramente una fonte raggiunta sul posto: “Con la nomina di Bunyoni, rischiamo di passare da una dittatura di fatto a una dittatura militare”.

UN INSEDIAMENTO AMBIGUO 

La cerimonia di insediamento del nuovo Capo di Stato si è tenuta nello stadio di Gitega (la nuova capitale, che Nkurunziza aveva voluto spostare qui da Bujumbura). Inginocchiato sul tappeto rosso (una prima assoluta), circondato dai dignitari del paese, il cattolico Ndayishimiye ha chiesto la benedizione di mons. Simon Ntamwana, vescovo di Gitega: “Lei può riportare la pace fra i burundesi. Lei sa quanto ne abbiamo bisogno” aveva affermato il vescovo. Che della preghiera fosse stato incaricato proprio Ntamwana, una delle personalità che più avevano ostacolato la terza candidatura di Nkurunziza, aveva per un attimo illuso. Ma pochi minuti dopo, nel suo discorso inaugurale, il gen. Neva ha subito spento le speranze, usando toni vagamente minacciosi nei confronti dei “colonizzatori” che non rispetterebbero la “sovranità” del Burundi. “Voglio rinforzare l’indipendenza e la sovranità del Burundi, la libertà di tutti i burundesi e proteggerli nella loro dignità. Che la comunità internazionale non si immischi più in questo genere di questioni come ha l’abitudine di fare”. Ndayishimiye ha anche lanciato un appello ai tantissimi che negli ultimi anni si sono rifugiati all’estero: “Rientrate, se volete, siamo qui per ascoltarvi”. Una frase ambigua, che ha lasciato negli esuli il dubbio di essere effettivamente ben accolti.



Per scaricare la rivista accedi con le tue credenziali d'accesso o abbonati.

Logo saveriani
Sito in costruzione

Portale Unico dei Saveriani in Italia

Stiamo finalizando la nuova versione del portale

Saremmo online questa estate!

Ti aspettiamo...

Versione precedente del sito