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A MISSÃO EM QUESTÃO / A EMERGÊNCIA DE UM PARADIGMA MISSIONÁRIO EM PERSPECTIVA DECOLONIAL

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La missione in questione. L’emergenza di un paradigma missionario in chiave decoloniale è il titolo del libro, in lingua portoghese, che raccoglie la tesi di dottorato di Stefano Raschietti, missionario saveriano, di Vicenza, da più di 30 anni in Brasile. Presentata alla PUC (Pontificia Università Cattolica) di Curitiba (Brasile), sotto la guida del teologo Agenor Brighenti, la tesi verte sul dibattito circa il paradigma classico della missione ad gentes, legato al progetto espansionistico delle potenze coloniali portoghese e spagnola in America latina, che provocò l’oppressione delle culture native fino al loro sterminio in molte regioni dei Caraibi e dell’America latina (dal Messico alla Terra del Fuoco).

La violenza legata alla pratica missionaria, descritta da Bartolomé de Las Casas nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie del 1542 – solo per citare un esempio –, provoca ancor oggi un certo shock. Nei primi decenni della Conquista, l’80-90 per cento della popolazione indigena morì a causa del lavoro logorante nelle miniere e piantagioni, delle malattie portate dai colonizzatori. Un fenomeno, questo, che non riguarda solo l’inizio della missione. Infatti, il non riconoscimento delle popolazioni autoctone e delle loro tradizioni culturali e religiose, l’arroganza e la presunzione eurocentriche hanno segnato l’azione missionaria fino all’inizio del XX secolo. Oggi, mentre il dibattito sul colonialismo guadagna posizioni nelle sfere politiche, sociali e culturali, la missione si interroga, come ha esemplarmente fatto Raschietti, sulla consistenza o meno del paradigma missionario coloniale. 

Lo studio di Raschietti, “Premio Erwin Kräutler” 2021, si distingue per l’ampia prospettiva delineata. Il progetto missionario dell’età moderna – in particolare la conquista dei nativi americani, dell’America latina, che gli europei definiranno come “l’altro” continente, ma anche le aspirazioni imperialiste del XIX e dell’inizio del XX secolo in Africa, Asia e Oceania – viene analizzato in modo fondamentalmente nuovo, sullo sfondo della teoria della decolonizzazione sviluppata negli ultimi due decenni dalle scienze sociali e antropologico-culturali dell’America latina. 

Ne emerge un “altro” paradigma missionario, di natura dialogica e decoloniale, che lascia cadere l’etnocentrismo, l’esclusivismo e il trionfalismo. Ma quella che oggi si chiama critica “decoloniale” era già iscritta nel cuore della fede cristiana: quando il Vangelo, e con esso ogni persona e ogni cultura con cui si trova a che fare il missionario, subisce violenza, non porta la vita, ma la morte. Bartolomé de Las Casas è solo uno degli esempi più noti in questo senso. Il fattore “nuovo” nell’opera di Raschietti è che rompe con ogni eurocentrismo, anche nascosto, come quello degli approcci teologici critici e pionieristici delle Scuole missiologiche di Lovanio (Belgio) e di Münster (Germania). La “nuova” visione dell’Autore consiste nella scelta metodologica, che unisce l’approccio storico a quello ermeneutico, e si basa su un paradigma decoloniale maturato negli ultimi decenni nel contesto latino-americano.

I capitoli 2 e 3 presentano, da un lato una visione storica differenziata, che descrive chiaramente l’amalgama missione-piano coloniale e imperiale, e dall’altro il punto di partenza ermeneutico, che fa riferimento al progetto del gruppo di ricerca interdisciplinare “Modernità/Colonialità”, di cui fanno parte Enrique Dussel, Anibal Quijano, Santiago Castro-Gómez e Walter Mignolo. Questa è la base metodologica dei capitoli seguenti. Lo studio del gruppo “La colonialidad del saber” (2000) è uno dei riferimenti centrali dell’Autore. Il potere della spada, esercitato dalla politica in modo specifico – culturale e religioso – ha trasformato gli abitanti delle zone “scoperte” in “altri”: non europei, indiani, nativi. Gli “altri” sono “oggetti” nel contesto di una logica di potere e conquista, e così si inventa l’America da un lato e la moderna Europa dall’altro.

Secondo tre teorici latinoamericani della decolonizzazione, Aníbal Quijano, Walter Mignolo ed Enrique Dussel, è proprio in questo momento che emerge l’idea di Europa e di cosa rappresenti – ed è anche quando nasce il razzismo. “Infatti l’invenzione dell’America – afferma Mignolo – è stato il primo passo verso l’invenzione di tradizioni extra-europee, e la modernità è stata responsabile della repressione di queste tradizioni attraverso la conversione, il processo di civilizzazione e, successivamente, l’idea di sviluppo”. Modernità e colonialità sono “due facce della stessa medaglia”: “La colonialità è costitutiva della modernità: senza colonialità non c’è e non può esserci modernità. La post-modernità e l’antica modernità non possono sbarazzarsi della colonialità: creano una nuova maschera, dietro la quale continuano a nascondersi, intenzionalmente o meno”. Però, quando questa “colonialità del potere” viene scoperta, si aprono prospettive nuove – ed è qui che si inseriscono gli approcci dalla filosofia e teologia della liberazione. Afferma Mignolo: “Se si ammette che la ‘modernità’ sia un progetto occidentale, è necessario assumersi anche la responsabilità della ‘colonialità’ (il lato oscuro, costitutivo della modernità), per tutti i crimini e gli atti di violenza commessi in nome della modernità”.

In altre parole, la “colonialità” è la più tragica “conseguenza della modernità”, ma, allo stesso tempo, ne è la conseguenza più promettente, da quando ha avviato lo slancio globale verso la “decolonialità”. È a causa di questa prospettiva decoloniale che la discussione latinoamericana si distingue dai teorici postcoloniali, le cui opere si sono sviluppate principalmente negli ex “centri coloniali” degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e il cui tema sono i contesti africani e asiatici. Qui si apre spazio alle prospettive teologiche della liberazione, soprattutto in vista della storia delle conquiste e della missione. Decostruzione e ricostruzione vanno di pari passo, in tutta la loro complessità e paradossalità; questo è il percorso seguito dall’Autore nei capitoli successivi della tesi, in cui elabora, in modo estremamente differenziato, la formulazione di una nuova comprensione e di un nuovo concetto di missione.

Nel capitolo 4, l’Autore analizza pratiche e sviluppi missiologici e testi del magistero sulla missione, in particolare quelli del Vaticano II: Ad gentes e Gaudium et spes. Nel capitolo 5, approfondisce questo approccio differenziato attraverso una lettura puntuale dei documenti delle Conferenze episcopali latinoamericane di Medellín, Puebla, Santo Domingo e Aparecida, fino al Sinodo Panamazzonico, in cui, il nuovo concetto di missione concentra e traduce l’intero processo postconciliare: nuovi soggetti, popoli indigeni, neri, donne e migranti, le cui voci sono finalmente ascoltate; nuove forme di partecipazione e la rottura radicale con tutti i “centrismi”; il valore della pluralità culturale e religiosa; e una definizione fondamentale della missione nella prospettiva del regno di Dio, da cui solo può emergere che cos’è la Chiesa.

Tali riflessioni portano al capitolo finale, che sintetizza il concetto decoloniale di missione, in prospettiva storico-ermeneutica, in termini teologici, pastorali e storici. Raschietti prende sul serio il “luogo da dove si pensa”, e conduce a un “pensare di frontiera”, da dove si sente il “grido dell’altra metà della modernità”; perché i linguaggi, le logiche e gli “universi simbolici” nelle diverse culture non si lasciano comunicare in un unico modo lineare. Le pratiche missionarie restano ambivalenti, l’incontro con l’altro può andare bene ma anche fallire, e la valutazione di questo processo resta aperta. In futuro sarà importante includere maggiormente la voce dei popoli indigeni e delle donne. Le logiche di pensiero devono essere ampliate nel senso di “sentipensar” o “corazonar”, e “toccare con mano le cicatrici delle ferite coloniali”. “Vivere” al confine, come suggerisce l’Autore – sicuramente sulla base della propria esperienza e di quella dei vescovi Erwin Krãutler e Pedro Casaldáliga – significa rimanere in uno “spazio intermedio”, in un “luogo di “contatto”, “attraversamento”, “trasmissione”, “sorpasso”.

In questo modo, il missionario si avvicina alla “sofferenza e delusione, alle fratture, ai conflitti” provati principalmente dalle popolazioni autoctone, dai neri di periferia, dalle donne che subiscono violenze, dai migranti e lavoratori che vivono in condizioni precarie. Questo confine non è un “luogo confortevole”, come dice Raschietti, ma insegna “l’arte della pluralità dei discorsi e della polifonia”. In questo senso possiamo anche imparare, di nuovo, la missio ad gentes come missio inter-gentes, che ci permette di convertirci all’altro e imparare dall’altro, accettando la vulnerabilità della “nostra” verità e la necessità di un salto epistemico nel nostro rapporto con noi stessi, con Dio e il mondo. Questo nuovo “vivere” è un “camminare insieme” sinodale, in cui imparare a “coordinare i miei passi con quelli del mio interlocutore, oltre i confini coloniali e diventando tutti persone più libere”.



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