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Un missionario nel destino di Tagore

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Padre Marino Rigon dal Bangladesh

Ha appena 27 anni, Marino Rigon, quando nel 1953 sbarca per la prima volta in Bangladesh. Non sa nemmeno l’inglese, ma nonostante si immerga subito nel suo apprendimento, capisce d’impatto che è il bengoli che deve imparare. La sua missione di prete lo porterà tra la gente ed è alla gente a cui dovrà parlare. La lingua è quella di Robindronath Tagore ed è sulle sue poesie che inizia a perfezionarsi. Forse in quegli anni giovanili nemmeno pensava di divenire un giorno ricercato traduttore del poeta bengalese.

La sua vita di missionario lo porta tra i diseredati, tra la gente che soffre, che muore di fame.

rigonNaviga il fiume e abita la foresta, regno incontrastato della tigre del Bengala. Ma è tra la gente delle immense povertà, degli agglomerati di catapecchie, delle immense periferie del mondo, dove Marino Rigon, vive intensa la sua vocazione. S’improvvisa architetto e costruisce una scuola a Shelabunia. Poi si trasferisce in città, a Khulna. Laggiù c’è la morte. Carestia, colera e vaiolo accodano in città migliaia di bengalesi in cerca di aiuto. Nell’affanno, nella frenesia disperata di missionario nel Bangladesh di quegli anni, trova conforto in un libro di Tagore.

Legge e rilegge ammirato le parole di Ghitangioli che nel 1913 era valso il premio Nobel al poeta bengalese. Prende appunti in italiano direttamente dal bengoli. Scrive e riscrive. È il 1957. Ma solo nel 1964 i suoi appunti su Ghitangioli riescono a diventare la prima traduzione di Tagore direttamente in italiano. Glieli pubblica l’editore Ugo Guanda. In breve la sua passione di attento lettore e cultore della poesia tagoriana si trasforma in opera letteraria di traduzione. Nel 1971 pubblica Sfulingo, nel ’74 Bolaka, nel ’79 Sissu sempre con Guanda.

Ma la vita di Marino Rigon non si chiude dietro ad una scrivania. Si impegna sempre in prima persona nella missione ardua di prete in un Paese diseredato. Leggendo Tagore si è ammirato più volte come la visione del divino del poeta bengalese sia tanto vicina alla cristianità. Spulciando qua e là le lettere di Marino Rigon si ammira come un uomo di Occidente abbia saputo accogliere con serenità la sorte di sofferenza di un’intera popolazione, pur lottando con tutte le proprie forze per un nuovo destino di dignità.

Nel 1971, quando scoppia la guerra d’indipendenza, si trova a Baniarciock. Si schiera in difesa dei diseredati e inizia la creazione di cooperative di pescatori e di agricoltori.

Ma nemmeno nei momenti più tragici la passione per la letteratura e per l’arte lo abbandona. Traduce la maggior parte delle raccolte del grande cantore bengalese, ma ve ne affianca altre di poeti meno noti. Appena gli avvenimenti si tranquillizzano torna all’attività didattica. Incentiva le ragazze di Shelabunia a rilanciarsi sui ricami antichi delle Nockshi Khanta, gli arazzi preziosi della più lontana tradizione bengalese, cuciti con punti piccolissimi, quasi invisibili. Ne nasce una scuola d’arte che il mondo gli invidia.

Ormai la sua padronanza della lingua bengoli è tale da permettergli di tradurre dall’italiano il Pinocchio di Collodi, mentre varie case editrici italiane, tra le quali le Paoline, si accorgono di poter proporre le opere di Tagore senza la mediazione della lingua inglese. In Bangladesh Marino Rigon è ormai un’istituzione.

Ma oltre ai premi letterari di grande rilievo che riceve in continuazione, la soddisfazione più grande è nel vedere crescere un rapporto sempre più stretto con la mastodontica opera poetica tagoriana ed il popolo al quale ha dedicato la sua vita.



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