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Un buon saveriano viterbese, Memoria di fratel Meo Gelsomini

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Non sono molti i missionari saveriani del Lazio. Qualcuno direbbe, "pochi ma boni!". Chissà. Fratel Bartolomeo Gelsomini era certamente uno di quelli "boni", di cui vale la pena parlare e raccontare. È morto a Parma il 21 febbraio scorso, a 81 anni, per un forte scompenso cardiaco. Era originario di Ischia di Castro, in provincia di Viterbo, e qui ora riposano le sue spoglie, in attesa della risurrezione.

Un contadino missionario

Fratel Bartolomeo - o "Meo" per gli amici - era entrato tra i saveriani nel dicembre del 1960, quando aveva già 34 anni. Prima si era sempre dedicato al lavoro dei campi. Era stato don Adriano Cervia, del Centro per un Mondo Migliore (Rocca di Papa), a consigliarlo e a presentarlo ai saveriani con una lettera in cui scriveva:

"Durante un corso di esercizi spirituali egli mi aveva manife­stato il desiderio di lavorare per le missioni; pensava di poter fare qual­co­sa come lavoratore. Io gli proposi invece la vita religiosa. La mia proposta lo trovò pronto fino alla commozione. È un carattere semplice e generoso; è dell'Azione cattolica e ha mostrato iniziativa nell'aiutare gli altri". Davvero un bel certificato di buona condotta!

"Sa santificare il lavoro"

Non è facile passare dal lavoro in campagna alla vita religiosa, regolata da orari e rapporti comunitari. Eppure, nei due anni intensi di formazione, Meo si è adattato in modo ammirevole. Il "maestro dei novizi" lo elogia: "Giorno per giorno, ha sempre fatto bene, contento di donarsi al Signore, senza rimpianti della vita lasciata. Ha sempre lavorato e faticato e sa che continuerà a lavorare e a faticare anche da missionario, ma ormai sa santificare il suo lavoro e se stesso. La sua preghiera è seria e sentita e fa con frutto la meditazione".

Divenuto saveriano a ottobre del 1962, come "fratello" (non sacerdote), rimase a San Pietro in Vincoli (Ravenna), incaricato dell'azienda agricola del noviziato. Sapeva dirigere i lavori, conservando serenità e armonia con gli altri fratelli e i giovani novizi che lavoravano con lui. Ma il suo desiderio era di partire per le missioni.

L'economo del buon umore

Nel 1970 fu destinato alla missione in Burundi. Qui lavorò come economo nella casa principale, dove sono ospitati il superiore e tutti i missionari, quando si incontrano per le assemblee o desiderano prendere qualche giorno di riposo. Fratel Meo gestiva i rifornimenti e il soggiorno, sorvegliava la cucina; era sempre disponibile a tutte le richieste e necessità dei missionari. Tutti erano contenti di lui, anche per il suo sorriso e il suo buon umore.

Nel 1981 fratel Meo fu espulso dal Burundi, insieme agli altri missionari. Da allora egli restò e lavorò nella casa madre dei saveriani a Parma, impegnato in tanti servizi utili e, in particolare, nell'assistenza ai malati. Dal 1988 al 2004 egli fu promotore dell'attività filatelica, con la collaborazione dei missionari anziani, a beneficio delle missioni.

Un confratello "profumato"

Padre Stefano Coronese, grande appassionato di filatelica, per qualche tempo ha lavorato con lui a Parma. Di fratel Gelsomini parla così: " Negli anni del mio soggiorno al Museo cinese di Parma, ci vedevamo quasi ogni giorno per la Messa nella Cappella dei Martiri e in refettorio. Il suo nome evocava in me il profumo del "gelsomino". Perciò lo chiamavo sempre "Gelsomino" e non con il suo vero nome di Meo. A sentirsi chiamare così, d'istinto lui reagiva, come per arrabbiarsi. Poi, sapendo che lo facevo apposta, sorrideva e accettava lo sgarbo.

Ogni mattina era puntuale alla Messa della comunità. Era lui che preparava l'altare, i libri, i camici. Sorvegliava che ogni cosa fosse al suo posto, che tutto cadesse a pennello. Uomo semplice, dai tratti gentili; religioso esemplare, senza tanti fronzoli; dedito alla preghiera e alla meditazione; serio e faceto insieme; ordinato e preciso nelle sue cose; paziente e sollecito, servizievole e giudizioso. Ora non è più. Ma il profumo del suo nome è rimasto con noi".



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