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Tra partenze, fermate e riprese

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Walter Taini si racconta in questa intervista.

Tutto è partito da San Cristo?

Sì, qui ho frequentato le scuole medie. Ho scelto i saveriani perché mi era rimasta impressa la visita che p. Meloni, p. Ibba e p. Luviè avevano fatto al mio oratorio. Era il 1966-1967. In 5-6 siamo entrati, poi solo in due abbiamo proseguito. Uno è diventato presbitero diocesano, don Piero Minelli (già fidei donum in Mozambico n.d.r), oggi parroco a Quinzano.

Amazzonia grande amore?

Per la verità avevo scelto l’Indonesia perché tanti missionari a Cremona ci parlavano delle isole Mentawai. Poi, le difficoltà nell’ottenere il visto, mi hanno fatto orientare verso l’Amazzonia; del resto, sempre foreste erano…

Dove la prima missione?

A San Felix do Xingu, che allora si raggiungeva solo via fiume. P. Renato Trevisan stava iniziando la sua esperienza nei villaggi con p. Salvatore Saiu. Io e p. Dario Maso ci siamo buttati e abbiamo iniziato prendendo spunto dai diari di p. Renato che per fortuna segnava cosa faceva durante l’anno. La parrocchia aveva 112mila chilometri quadrati di estensione, un terzo dell’Italia! Ma con la costruzione della strada abbiamo assistito all’arrivo di molti immigrati interni. Era una zona di foreste di mogano con continuo via vai di camion che noi sfruttavamo per raggiungere le comunità più lontane. Poi, finalmente, il vescovo ci ha fornito di una jeep.

Le cose sono cambiate velocemente…

Tanto che nel frattempo erano sorte due città all’interno del nostro territorio parrocchiale. Una è l’attuale Ourilandia, città dei cercatori d’oro. L’altra è Tucumà, fondata da una grande impresa edile. A quel tempo, le aziende edili investivano in terre che il governo quasi “regalava” loro. E le vendevano ad ettari ai contadini arrivati dal sud. In pratica, ci trovavamo tra i cercatori d’oro, i contadini neo-coloni e i vecchi siringeiros (coloro che vivevano dei proventi dell’albero di caucciù).

Poi si volta pagina…

Nel 1987 sono stato assegnato alla Gran Bretagna per sei anni. Partecipavo a un programma settimanale nelle scuole (Caring church week). E, su iniziativa di p. Tobanelli (altro bresciano missionario in Bangladesh), abbiamo formato una piccola comunità nel quartiere di migranti bengalesi, Stepney Green. Lì, in concomitanza con la prima guerra in Iraq, abbiamo partecipato a una processione interreligiosa per la pace, sfilando davanti alla sede del BNP (British National Party-partito britannico di estrema destra).

Poi di nuovo il Brasile…

Sì. Mi sono fermato a San Paolo per seguire un corso che mi avrebbe aiutato a reintrodurmi. Ho conosciuto p. Menin, allora direttore della teologia, che mi ha consigliato di seguire un master. E così mi sono specializzato in missiologia. Come tesi ho messo in ordine gli appunti dei saveriani che avevano lavorato con gli indios Kayapò.

Com’è stato il rientro?

Scioccante. Non c’era più quella foresta che avevo conosciuto fino a 10 anni prima. P. Danilo Lago orientava la pastorale su aspetti sociali e ambientali. Ci chiedevamo come fermare questa distruzione. Vedevamo che i contadini si spostavano dove c’era la foresta, perché con i soli campi da pascolo non riuscivano più a vivere. Vendevano e ricominciavano. Una coltivazione che potesse dare futuro a una famiglia con poca terra era il cacao. Insieme all’introduzione del bestiame da latte, ha portato tante famiglie a fermare gli spostamenti.

Ora, sono arrivate le imprese minerarie, perché è una zona ricchissima di ferro, uranio, oro, nichel…

Negli ultimi anni qualcosa è cambiato?

Nel 2009 sono stato all’Urbaniana per rispolverare un po’ dei miei studi in missiologia. L’idea era di sfruttarli per due centri di formazione per laici che i saveriani hanno a Tucumà. Invece, mi hanno chiamato a Belém all’Istituto di teologia e filosofia che riunisce diocesi e congregazioni del Parà. Ho insegnato teologia e missiologia.

Finite le lezioni dove andavi?

I primi due anni mi appoggiavo alla parrocchia saveriana di Abaetetuba (Concordia do Parà). Qui le comunità sono antiche, non così varie come a São Felix. Ho potuto apprezzare e godere del lavoro svolto dai primi saveriani arrivati lì e che ancora sono ricordati. Gli altri tre anni, ero ad Ananindeua, al centro di formazione missionaria (lo Csam brasiliano).

Fino a una sorpresa sgradita…

P. Gamba aveva organizzato il primo corso di formazione per laici proprio a Belém. Stavo preparando un incontro quando da un checkup è emerso un tumore all’intestino. Sono rientrato in Italia. Era il 2014. Due giorni dopo il mio arrivo, mi hanno operato a Parma.

Da un anno sei a Brescia?

Sì, in accordo con i due superiori regionali (Brasile e Italia). Il consiglio dei medici è recuperare completamente le forze. Il 2017 è un anno di convalescenza che trascorro qui, vicino ai miei genitori. Tra l’altro a Rezzato si sta creando l’unità pastorale e il parroco mi ha chiesto di dare una mano. Ho ripreso a fare il prete… dopo anni da paziente impaziente. E qui nella comunità, ben accolto da tutti, in particolare da p. Menin, mi dedico all’orto, affiancando p. Gesuino.

Che Italia hai trovato?

Con grandi difficoltà lavorative rispetto a 30 anni fa e più multietnica.

La sfida della missione in casa…

Sicuramente occorre un riposizionamento delle comunità saveriane in Italia. Ritengo, però, che, come scrive la scrittrice Amadei, un missionario debba sempre sentirsi ospite, perché se non è così rischia di credersi il padrone della situazione. Quindi, non è giusto dire che anche questa sia missione, perché qui si gioca in casa, conosciamo quasi tutto, non ci sono segreti.



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