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A fine agosto p. Franco Bertazza è tornato dall'ennesimo pellegrinaggio che lui ama accompagnare. Oggi ha già deposto la stanchezza ed è pronto a raccontare l'esperienza appena conclusa. Ma è pronto anche a pareggiare le erbe del parco perché, secondo lui, un centro di spiritualità missionaria deve trasmettere la nostalgia della terra; soprattutto oggi, nell'era del virtuale e delle bolle finanziarie. La terra rilassa, cura, insegna e restituisce il contatto con un'esperienza molto concreta.

Più vicini al senso della vita

Voi, amici lettori, avete avuto modo di leggere i suoi articoli per tanti anni, ma è bello ascoltarlo quando sentenzia: "Oggi molte persone vivono la sensazione di essersi lasciati troppo imprigionare dal cemento, dall'inorganico, dall'artificiale, al punto di avere la sensazione che ci manchi letteralmente il respiro". È bello ascoltarlo quando precisa che è la sua passione di missionario a sospingerlo ad accompagnare i pellegrinaggi.

A lui basta la fisarmonica: il canto apre il cammino, le parole risvegliano i cuori alla fede. Quando poi si siede ad ascoltare chi ha bisogno di lui, non guarda mai l'orologio. Si ha l'impressione che per lui accompagnare i pellegrini sia come metterli di fronte a qualcosa di vicino, di molto vicino al senso stesso della vita.

In cerca di un volto...

Medjugorje, Lourdes, Pietrelcina sono lontani tante ore di viaggio: dal buio della notte verso la luce del giorno. Spesso la fatica di quel cammino si rende necessaria per scoprire un immenso desiderio, che non si riesce più a soffocare, a tenere a bada. Nella maggior parte dei casi, i pellegrini riescono a dire perché si sono messi in pellegrinaggio solo attraverso la consapevolezza - che lievita chilometro dopo chilometro, giorno dopo giorno - di essere in cerca di un volto: del volto di colei che ci è Madre. Ad esempio, una volta giunti a Medjugorje, tutto quello che i loro occhi vedono, tutto quanto le loro orecchie odono riconduce a quel volto che non è definibile, ma è presenza vera.

Uscire dal dubbio

Una volta tornati, a chi chiede stupito o incredulo, i pellegrini raccontano la nostalgia del consenso di fede che hanno sperimentato in mezzo alla folla che si muove pregando, dove tutti i preti confessano, dove si cerca un contatto con il mondo che sta dentro il mondo che si vede: "Oggi la nostra gente chiede di essere  accompagnata a uscire dal dubbio, desidera domandare, ama sentirsi dire che anche nella vita c'è una meta e che ci sono tanti percorsi. Sente il bisogno di stancarsi, di stancarsi insieme agli altri nella ricerca. Piace loro rendersi conto che per conoscere Dio, il nostro cuore lo deve prima invocare".

Una sorpresa "miracolosa"

Lo scorso mese di aprile, anche p. Giuseppe Caretta è tornato a guidare un pellegrinaggio a Medjugorie: esattamente un anno, tre mesi, sedici giorni dopo il grave incidente. Miracolo, destino?

"Quando ero ancora ricoverato in ospedale - racconta - mi ero trovato tante volte a pensare: ormai a Medjiugorje ci potrò andare solo partendo dal paradiso. Invece, quello che pareva impossibile si è realizzato.

Ho sempre sognato di accompagnare in pellegrinaggio persone, perché, una volta giunti alla meta, sperimentassero la gioia che ogni buon cristiano prova anche a casa sua, quando vive la vita buona del vangelo. Del resto, lo stesso papa Giovanni Paolo II aveva rassicurato alcuni amici vescovi: «Andate a Medjugorie, là si prega»".



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