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Nell’anniversario del martirio, il Congo vota

Nel corso dell’estate non ci sono stati solo i tormentoni estivi. C’è stata purtroppo la guerra del Libano e l’interminabile estenuante processo per decidere come cercare di aiutare a ristabilire la pace in Medio Oriente. Nessuno, o quasi, si è accorto - non è purtroppo una novità! - di ciò che è successo in Africa, anche se è stato un avvenimento di grande portata politica e umana.

Il 30 luglio 2006 la popolazione della repubblica democratica del Congo (RDC) è stata chiamata alle urne, dopo quarant’anni, per eleggere il presidente della repubblica. Lo ha fatto in massa, con ordine e calma, a dispetto delle fosche previsioni di quegli osservatori che prevedevano (o speravano?) elezioni impossibili e, comunque, conflittuali.

“L’avvenimento africano” 

Il 20 agosto sono stati proclamati i risultati. Nessun candidato ha avuto la maggioranza assoluta. Perciò, come previsto, si dovrà andare al ballottaggio fra il presidente ad interim Joseph Kabila, che ha avuto il 44,8 per cento dei voti, e il candidato Jean-Pierre Bemba, che ha avuto il 20,03 per cento dei voti. Purtroppo, alla proclamazione dei risultati nella capitale Kinshasa, dove il vincitore Kabila non è troppo ben voluto, sono scoppiati i disordini, per fortuna presto sedati.

Ora si attende il ballottaggio del 29 ottobre prossimo, mentre molti si chiedono se è lecito sperare. Malgrado tutto quanto è accaduto, noi siamo convinti che questa sia l’unica strada per il ritorno alla democrazia e alla pace dopo quarant’anni di dittatura, di guerra e di sfruttamento. Lo speriamo perché, se questo non fosse, il processo di pace sarebbe compromesso non solo nella repubblica del Congo, ma anche in Burundi.

Quindi sarebbe a rischio la ripresa politica ed economica in tutta la regione dei Grandi Laghi. Non solo si può, ma si deve sperare!

Il martire e la democrazia

Il 29 ottobre, data del ballottaggio, coincide con il decimo anniversario dell’assassinio dell’arcivescovo di Bukavu, mons. Christophe Munzihirwa, un gesuita chiamato nel 1995 a guidare la chiesa di Bukavu. Questo è il capoluogo del Kivu meridionale, una delle zone più ricche e, paradossalmente proprio per questo, più povere e turbolente della nazione. Solo un anno dopo, il 29 ottobre 1996, egli è stato assassinato, a causa della sua ostinata propaganda per la pace e la riconciliazione. 

Dopo che la città di Bukavu era diventata rifugio per i profughi che fuggivano dalla repressione seguita al genocidio rwandese del 1994, il governo del Rwanda aveva iniziato a bombardare la città di Bukavu per sloggiarne i profughi e occuparla. L’arcivescovo aveva protestato proclamando, a voce alta e con ogni mezzo, che nessuna logica politica vale più della persona umana e che la pacifica convivenza delle popolazioni, dentro i confini nazionali, era la sola strada per un futuro di pace. 
Per questa sua coraggiosa testimonianza alla “verità della pace”, mons. Munzihirwa era stato condannato a morte.

Testimoni hanno riferito che la sera prima della morte dell’arcivescovo, il capo del contingente rwandese, già entrato clandestinamente in città, aveva comunicato via radio ai suoi capi di aver localizzato l’arcivescovo: “Lo abbiamo in mano. Cosa dobbiamo fare?” - aveva chiesto ai suoi superiori. La risposta era stata secca e senza pietà: “Abbattetelo!”.

Dalla tomba, l’anelito di pace 

Così quell’uomo mite, che non avrebbe fatto male a una mosca, la mattina dopo è stato fatto scendere dalla sua vettura ed è stato abbattuto nella piazza centrale di Bukavu, freddato con una pallottola alla nuca, insieme al suo autista. 

L’arcivescovo Munzihirwa è diventato per la popolazione di Bukavu un martire della pace e della convivenza pacifica. La sua tomba, davanti alla cattedrale, è sempre meta di pellegrinaggio e di preghiera. La sua memoria ha ispirato alla popolazione di Bukavu il coraggio per resistere e difendere pacificamente i propri diritti. 

Ancora una volta, egli sarà il simbolo di un popolo che non vuole lasciarsi risucchiare nella logica della guerra, ma che intende costruire un futuro di pace, nella partecipazione e nella solidarietà. Per questo, non solo possiamo, ma dobbiamo sperare!



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